Un’altra lapide nel cimiterodelle fabbriche

Il “cimitero” delle grandi fabbriche lodigiane si arricchisce di una nuova lapide. L’iscrizione della Baerlocher all’elenco delle aziende del territorio cancellate dalla crisi globale rappresenta l’ennesima tappa di un processo di fuga progressiva dei grandi gruppi industriali stranieri da una provincia che avevano fieramente colonizzato negli ultimi decenni del secolo scorso. Non c’è di che stupirsene. Le multinazionali ragionano secondo la logica esclusiva del massimo profitto: sono dei “moloch” che possono tranquillamente palesare indifferenza verso le ricadute sociali delle loro scelte di disimpegno, poco disposte a sacrificare parte degli utili di gruppo per salvare rami produttivi ritenuti poco redditizi.

Di vicende come quella della Baerlocher il Lodigiano ne ha conosciute più d’una negli ultimi anni. Dalla serrata dell’olandese Akzo Nobel di Fombio, al pesante ridimensionamento della Lever di Casalpusterlengo, fino alle tribulazioni non ancora concluse della statunitense Schering Plough (ora Merck) di Comazzo. Per non parlare del fallimento della coreana Bardiafarma di Borgo San Giovanni dove la tedesca Bosh ha chiuso la BMA.

C’è chi è riuscito a piazzare ad altri i propri impianti, come l’americana Monsanto che ha ceduto al Gruppo Sipcam le strutture di Lodi, chi ha progressivamente ridotto ai minimi termini quello che era un grande complesso industriale (la belga Solvay alla Eleso, ex Elettrosolfuri, di Tavazzano), e chi ha innestato la retromarcia sugli investimenti promessi, come E.On per la centrale a turbogas di Tavazzano-Montanaso. Qualcuno resiste, sia pur non senza conseguenze. La danese Nilfisk e la francese Schneider (ex Areva) a Guardamiglio o la statunitense Pregis a Ossago hanno per ora contenuto i danni, grazie al ricorso agli ammortizzatori sociali, dagli esodi volontari ai contratti di solidarietà. Solo Abb, Trelleborg e poche altri grandi gruppi sembrano aver attraversato la crisi senza apparenti conseguenze o pesanti ricadute occupazionali sul territorio.

La certezza che si trae da questo sconfortante quadro è che il destino del comparto industriale nel Lodigiano sia assolutamente sottratto al controllo di chi in questo territorio vive e lavora. Peggio ancora, al controllo di chi lo governa. Se una multinazionale decide di chiudere i cancelli li chiude. Si può trattare, si possono diluire i tempi, cercare di ammortizzare il colpo, ma l’epilogo sarà sempre e comunque doloroso.

È una situazione, questa, che si è determinata nei decenni scorsi, quando l’irruzione delle grandi compagnie straniere ha spinto ai margini del mercato l’imprenditoria locale, che ha accentuato la propria dipendenza dai colossi del mercato, smarrendo iniziativa e spinta all’innovazione.

Quanti sono oggi gli imprenditori lodigiani di successo? Zucchetti, Bergamaschi con l’Erbolario, la famiglia Falchetti con la MTA a Codogno, il broker Franco Curioni, forse qualcun altro ancora. Sicuramente non molti, non abbastanza per attivare un processo di sviluppo che abbia qualche speranza di successo. L’industria lodigiana oggi naviga a vista, inseguendo per lo più prospettive di piccolo cabotaggio.

E la politica? Quel che andava fatto un tempo per salvaguardare il tessuto imprenditoriale locale, ormai non si può più fare. Che sia improbabile poi pensare di incidere nei processi dell’economia globale dagli uffici del Broletto o di palazzo San Cristoforo è altrettanto evidente. La sensazione di impotenza non deve però avallare la linea dell’indifferenza. La politica locale non può più limitarsi a rincorrere le emergenze, deve mettere al centro dei propri programmi un piano condiviso di sviluppo del territorio che vada oltre la raspadura e i festival vari. Deve dare concretezza ai progetti avviati per ora solo sulla carta, ragionare seriamente sui percorsi più opportuni per creare occasioni di lavoro stabili e durature. Promuovere un’alternativa. O resteremo sempre al guinzaglio delle multinazionali. Un laccio che potrebbe stringersi sino a soffocarci.

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