Un’area vasta, da Pavia a Mantova...

Caro Direttore, torno da Modena, dove ho incontrato per lavoro alcuni rappresentanti di banche, amministrazioni locali, associazioni di categoria che si interrogano sul dopo sisma. Comune a tutti, una considerazione che, fatte le debite proporzioni, mi sembra importante anche per noi: come ricostruire ciò che un evento esterno ed improvviso ha distrutto? Nel dibattito, a Modena, si confrontano due scuole di pensiero. C’è innanzitutto chi vuole che tutto torni come prima, ricostruendo dov’era e com’era ciò che è crollato e rattoppando ciò che è pericolante. Una logica, questa, che si fonda prevalentemente sul timore che il nuovo peggiori le cose, imbruttisca il paesaggio, metta in discussione alcune consolidate rendite di posizione. Una logica conservativa e conservatrice, la potremmo definire, tutta rivolta alla riproposizione di un passato prospero e felice. Ancorché venata dalla latente consapevolezza che le fondamenta di quell’Eldorado fossero comunque erose dai venti di una crisi, che lì, a Modena, aveva picchiato più duro che altrove. E che, quand’anche fedele, di quel passato non si potrà che costruirne un simulacro. La seconda scuola di pensiero è quella di chi pensa che il terremoto possa essere l’occasione per costruire un territorio e un futuro migliore. Che nella tragedia, sia tuttavia anche un’opportunità, ad esempio, per favorire le unioni comunali, per accorpare le aree industriali, per ridisegnare il sistema della mobilità di merci e persone. In altre parole, per affrontare, pur in una situazione delicata e complessa, le debolezze strutturali, pre-esistenti al sisma, del sistema Modena. Non le nego, caro Direttore, di sentirmi molto più affascinato dalla seconda prospettiva. Dal coraggio di persone che non si sentono parte di una generazione “in vacanza”. Che hanno l’ambizione, nonostante tutto quello che gli è capitato addosso, di voler costruire un territorio più competitivo, forte e vivibile di quello che i genitori hanno costruito per loro. Faccio ricorso a un eufemismo se dico che fatico a vedere lo stesso coraggio e la stessa ambizione in un territorio, il nostro, che - invece delle case, delle scuole e dei capannoni - sta perdendo la sua autonomia. Trovo infatti che il dibattito sul futuro amministrativo del lodigiano sia completamente arroccato sulla sterile difesa di qualche brandello di esistente. “Andiamo con la città metropolitana milanese”, dicono alcuni. Persuasi che, diventandone area d’espansione residenziale, ci guadagneremmo in ricchezza e benessere. È un’opinione con la sua legittimità e i suoi fondi di verità, intendiamoci: siamo un’economia – oggi in crisi - fondata sul pendolarismo, sulle costruzioni, sui servizi alla persona, sulla logistica e sulla produzione di energia elettrica. E, consegnandoci a Milano, non faremmo altro che esserlo ancora di più. Certo, allo stato attuale anche la difesa del nostro attuale benessere è grasso che cola. Però, dentro questa visione di futuro – conservativa e conservatrice - ci vedo solo la paura di perdere quel poco che abbiamo. Logica vorrebbe, di conseguenza, che elementi di maggior coraggio e prospettiva si annidassero nella via alternativa: quella, promossa dalle istituzioni locali, di un aggregazione basso-padana con Cremona o con la sola Crema. In parte lo è, in effetti. In primo luogo, perché è un unione tra pari, tra due debolezze che provano, sommandosi, a diventare più forti. Ma soprattutto, perché prefigura un percorso di sviluppo ancora tutto da costruire. Hanno ragione da vendere Santantonio, Foroni e Guerini quando parlano dell’omogeneità economica e sociale di queste due realtà come delle solide fondamenta di un aggregato territoriale sostenibile. Detto questo, vale anche la pena di ricordare come, allo stato attuale, fra Lodi e Crema non vi sia uno straccio di interdipendenza, né a livello politico, né tantomeno a livello economico, culturale, sociale, e come le infrastrutture che le collegano siano scadenti e inadeguate. Lo stesso, del resto, si può dire in relazione ai rapporti che intercorrono tra Lodi e Pavia, tra Crema e Cremona, tra Cremona e Mantova. La bassa Lombardia nella sua totalità, a ben vedere, sconta tutti i limiti di una pianificazione regionale da sempre Milano-centrica. Sembra paradossale, ma per un cremasco, andare all’università a Pavia è un’odissea. Così come a un lodigiano è precluso accettare un’offerta di lavoro a Cremona, a meno che non decida di trasferirsi all’ombra del Torrazzo. Non è escluso che le cose non possano cambiare da sole, nei prossimi anni. Parlando con un’importante gestore autostradale ho potuto toccare con mano la strategicità della bassa padana nella progettazione dei futuri assi a lunga percorrenza. Il ragionamento è semplice: la pedemontana piemontese-lombardo-veneta, satura di case, capannoni e strade, non ha più spazio per ospitare nuove strade, nuove ferrovie, nuovi centri intermodali. Ecco allora che tutti i progetti di sviluppo territoriale futuro passeranno per l’area verde che va da Pavia a Mantova. Detto in altre parole: siamo l’unica area lombarda che ha i margini per crescere. E quindi, piaccia o non piaccia, è ai nostri territori che si guarderà per fare nuove strade, nuove ferrovie, nuovi nodi di interscambio. Potremo decidere di opporci strenuamente a tali nuove realizzazioni o stendere loro un tappeto rosso: non è questo il problema. Il problema sta nel costruire oggi un quadro istituzionale territoriale che abbia la dimensione e l’autorevolezza politica per dare massima forza a ciò che decideremo di fare domani. Può sembrare un azzardo, ora come ora, proporre una grande aggregazione fra le province di Pavia, Lodi, Cremona e Mantova. Sono tuttavia convinto che questa sia la dimensione ottima minima per affrontare le sfide che ci attendono. Per costruire una mobilità di merci e persone realmente d’area vasta, non più frutto della sommatoria disordinata tra i piccoli egoismi comunali e provinciali. Per pianificare uno sviluppo territoriale armonico che localizzi le funzioni là dove servono e che provi ad andare oltre alla sterile competizione tra “piccole patrie” ognuna con la sua università, la sua fiera, la sua promozione turistica, il suo festival. Per costruire un’offerta di servizi sociali ed assistenziali che, in un epoca di risorse scarse, abbia le dimensioni sufficienti per generare economie di scala ed essere economicamente sostenibile. Per costruire un infrastruttura telematica all’avanguardia che evolva il rapporto tra enti locali e cittadini. E anche – forse sarebbe meglio dire soprattutto – per costruire una “quasi-regione” che dia nuova forza e centralità a territori storicamente marginali e deboli dalle parti del Pirellone. Se poi da questa unione, come credo, si arriverà a risparmiare anche qualche quattrino, tanto meglio. So bene, caro Direttore, quanto tale prospettiva possa suonare irrealistica a chi ci governa. Sono tuttavia altrettanto convinto del fatto che i nostri figli e i nostri nipoti faticheranno a capire il fardello di paure, campanilismi, rendite di posizione che la rendono un’utopia.

© RIPRODUZIONE RISERVATA