Crollo del ponte: chiesto il processo

Il gip restituisce gli atti al pm perché manca un indice

Ci sono voluti due anni e otto mesi perché la fase delle indagini preliminari sul crollo del ponte di San Rocco al Porto, avvenuto a mezzogiorno del 30 aprile 2009, si concludesse definitivamente, con le richieste di rinvio a giudizio partite in questi giorni dalla procura della Repubblica di Lodi. Ma, a sorpresa, i faldoni sono stati rimandati dal gip Isabella Ciriaco alla segreteria del pm Delia Anibaldi. Per un motivo esclusivamente tecnico: a fronte di numerose perizie e “controperizie”, verbali, elaborati tecnici e memorie difensive, mancava un indice che permettesse di individuare agevolmente i documenti necessari per valutare le diverse posizioni. E così dovrà passare ancora qualche giorno prima che l'ufficio gip possa fissare l'udienza e quindi far partire le notifiche sulla base delle quali si potrà sapere chi, fra i 13 indagati per i quali la procura non aveva già chiesto l'archiviazione, rischia di finire a processo per disastro colposo.

Sicuramente si tratta di una delle indagini più corpose, per quantità di valutazioni tecniche, fra quelle mai svolte dalla procura lodigiana. Di inchieste che occupano da sole un intero carrello per la movimentazione dei fascicoli in questi anni non ne erano mancate, dalla vicenda del falso in bilancio della Popolare di Lodi a “Rifiutopoli”, inchiesta per la quale per la prima volta si era fatto ricorso alla digitalizzazione di tutti gli atti.

Per il crollo del ponte, la tesi della procura lodigiana resta quella di una mancanza di manutenzione: alla luce di relazioni tecniche del 1990 e del 1992 il pm, nell'avviso di conclusione delle indagini notificato in ottobre, ricorda che agli atti del Compartimento di Milano dell’Anas c’erano documenti che indicavano la necessità di intervenire per la corrosione dell’impalcato, la struttura orizzontale del ponte, oltre che per il consolidamento delle pile. Quest’ultima operazione era stata avviata l'anno prima del crollo, e le pile secondo i consulenti del pm non si sono, infatti, spostate; l’impalcato invece, nella campata collegata alla spalla sul lato lodigiano, ha ceduto, per corrosione. «Cedimento strutturale», era stata la conclusione del pm. Ma su questo una perizia di Anas, parte offesa, aveva sposato invece la tesi della non prevedibilità, sostenendo che il cedimento sarebbe iniziato in una piastra di acciaio non visibile, perché chiusa all'interno della struttura, e difettosa già al momento della sua installazione, nel Dopoguerra.

I consulenti di alcuni dei 13 indagati inoltre hanno continuato a sostenere, nei memoriali difensivi presentati nei mesi scorsi, che il crollo non può non essere considerato un evento slegato dall’ondata di piena che era transitata sotto il ponte poche ore prima. Anzi, tutta la colpa sarebbe del Po.

Nel frattempo Anas si era già mossa con proposte di risarcimento ai quattro automobilisti rimasti feriti, riuscendo ad aprire con tutti una trattativa e a chiudere quasi tutte le posizioni in tempi rapidi.

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