Un pericolo segnalato, in un luogo “protetto”, dove nessuno sarebbe dovuto andare. I testimoni sfilano, raccontano e quella di Luca Bergamaschi, il 13enne morto il 18 ottobre del 2007 fulminato dalla corrente mentre camminava sulla sommità di un carro tramoggia in sosta nella stazione ferroviaria di Codogno, sembra la cronaca di una tragedia “annunciata”. Almeno nella misura in cui, come spiegano le cinque persone chiamate a raccontare la loro versione al giudice, la minaccia rappresentata dall’alta tensione sui cavi sopra i binari era evidente, per messaggi e simboli. Questa e altre dichiarazioni hanno accompagnato la nuova udienza del processo per la drammatica fine del ragazzino codognese.
Un processo con cinque imputati, tutti dipendenti all’epoca dei fatti delle ferrovie dello stato: i milanesi A.F.R., 55 anni, di Milano, all’epoca del dramma capo dell’ufficio territoriale della direzione compartimentale infrastrutture di Reti ferroviarie italiane, B.P., 64 anni, capo area trazione elettrica, il 46enne di Montescano A.M. (capo reparto lavori di Voghera) il 47enne di San Zenone al Lambro L.G. (capo zona trazione elettrica) e il 57enne A.G., di Montanaso, capo tronco lavori di Codogno, accusati di omicidio colposo per violazione di norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro. I nodi sul tavolo? I varchi nella recinzione, che avrebbero agevolato l’avventura finita in disgrazia di Luca e dei suoi amici, fino alla corrente sui cavi sopra la tramoggia, in funzione, nonostante in quel momento il binario non fosse in esercizio.
Nodi e responsabilità, dunque, sull’accessibilità dell’area, la manutenzione e la gestione della stessa: ma che la difesa, che con la pubblica accusa ha condiviso solo uno dei cinque testimoni, ha contestato a più riprese. In aula hanno parlato, tra gli altri, un sovrintendente della polizia di stato e un suo assistente della scientifica, ma anche due funzionari delle ferrovie. E ciascuno, con le sfumature del caso, ha ricordato i cartelli, con i disegni dei teschi, delle folgori e l’inequivocabile avviso di “pericolo di morte” immortalati su un traliccio, piuttosto che su un vagone; avvertimenti ai quali s’era aggiunto fin dal giorno prima della tragedia quello verbale di un agricoltore, residente nella vicina cascina, ma dei quali il povero Luca, evidentemente, non s’era accorto.
E i varchi nella recinzione? C’erano, per qualcuno più evidenti, per altri “protetti” da rovi e dal dislivello tra lo sterrato percorso dai ragazzi e la massicciata prima dello scalo dove il 13enne è perito. Scalo che in realtà, tecnicamente, sarebbe un “fascio di campagna”, per la sosta, composizione e scomposizione dei convogli: “Una zona che va alimentata dalla corrente”, hanno rilevato i due funzionari delle ferrovie, spiegando come l’area, interdetta ai non addetti ai lavori, è recintata a sufficienza sia per proteggere chi ci lavora, sia per scoraggiare da propositi di furto i malintenzionati. “Non c’è responsabilità, se non quella del malcapitato”, ha dichiarato uno dei due funzionari delle ferrovie, ma le testimonianze non sono finite: e assieme a quella del consulente tecnico delle difese, il 9 gennaio prossimo, dovrebbero includere anche quelle dei primi imputati.
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