Cronaca / Basso Lodigiano
Giovedì 05 Novembre 2020
Novembre 1994: la piena del Po che fece rivivere l’incubo del 1951
Ventisei anni fa tante case evacuate e tanti volontari a “soccorso” degli argini del Grande Fiume: il ricordo dell’ex sindaco di Orio
È la sera di martedì 8 novembre (del 1994), il momento della grande paura sembra passato. La notte precedente il Po a Corte Sant’Andrea ha toccato il livello di metri 8.80 poi è andato lentamente ma continuamente calando. Protezione civile, vigili del fuoco e residenti sono però continuamente in stato di massima all’erta.
A Orio Litta il sindaco e i suoi consiglieri sono informati della situazione e per tutta la giornata di lunedì hanno collaborato senza sosta a vigilare sulla piena del fiume. Alle ore 19 di martedì gli oriesi sono in casa a cenare, le tv accese che trasmettono immagini dolorose e tragiche. I pendolari che tornano da Milano non fanno però in tempo a sedersi a tavola: alle 19.50 il paese è scosso da un improvviso e sordo rintocco che da decenni non attraversava più le vie del borgo: campane a martello! Molti già erano in allarme, decine di telefonate a catena mobilitano giovani e anziani in una sorta di corsa al fiume, in un rincorrersi di notizie che lasciano a bocca aperta: sembra che il Po stia rompendo a Corte Sant’Andrea, c’è bisogno di volontari. Sto finendo una bistecca quando il parroco don Gianfranco Pizzamiglio scende dalla Fiat Uno di Marco Ciusani davanti a casa: calza stivaloni e indossa la giacca a vento, dice di raccogliere in fretta gli amici, lui intanto corre a Corte Sant’Andrea dove serve gente per rinforzare l’argine che vacilla minato dai fontanazzi. Alle 20.10 quattro auto partono da piazza Mercato mentre gli ultimi pendolari che scendono dal bus della Sila ci guardano senza il coraggio di chiedere nulla. Come un sol uomo, di colpo, senza parlare, mezza Orio infila gli stivali e corre sull’argine dove decine di uomini sono già al lavoro. Un responsabile della protezione civile, un milanese, chiede ordini, non ci lascia passare. La strada d’accesso all’argine è una fila ininterrotta di auto. Arrivano i carabinieri di Orio Litta che ci ingiungono di tornare a casa. Poi arriva via radio l’ok: possiamo passare. Sul posto già lavorano alacremente gruppi di amici, ci aggiungiamo a loro. Alla luce di fotoelettriche che rischiarano a giorno, duecento oriesi coordinati dall’assessore Gianfranco Boriani tamponano con sacchi di sabbia un fontanazzo apertosi sulla prima sponda dell’argine. La catena umana si passa di mano in mano decine di sacchi, sull’argine una dozzina di volontari della protezione civile, le tute fosforescenti lucide e nuove, osservano. Il milanese di poco prima mi dice: «In Italia c’è un grande cuore, tutti sono pronti a dare una mano, corrono, si mobilitano ma nessuno sa guidare e dirigere le forze. Avete fatto bene a venire ma la situazione è sotto controllo, non allarmatevi». Intanto i residenti hanno i volti tirati. Nei loro occhi sbarrati si nota la paura di chi non dorme da 24 ore. «Ho passato la notte di lunedì abbracciata ai miei figli - ci dice Alba Premoli -, guardavo insistentemente l’orologio aspettando l’ondata di piena. Fuori il rumore del Po era impressionante. Verso le 3 la protezione civile è passata per vedere se eravamo in casa, ci ha fatto coraggio, devo dire che non ci hanno mai lasciati soli».
Arriva anche Virginio Zanoni, sindaco di Orio, e giunge un camion di sabbia. Il fontanazzo è chiuso ma si scandaglia la macchia per scovare altre infiltrazioni. Noto in basso una camicia rossa che mena fendenti con una roncola per aprire un varco: è don Gianfranco. La catena di volontari rifiata, ma sorge il pericolo di un secondo fontanazzo cento metri più avanti: immediatamente la fila si sposta e riprendono a circolare i sacchi avanti e indietro. Uno dei fratelli Vignati (Tanino e Pierluigi) tranquillizza: «Il Po cala ma molto lentamente, di fontanili ne usciranno ancora parecchi però non c’è più pericolo. Nel ’51 rimase alto per dieci giorni e gli argini tennero. Erano più bassi e meno forti di adesso».
Di fianco a me il bresciano sfollato dalla cascina Isolone e che da ore e ore lavora a tamponare tira il fiato. In dialetto commenta: «Ce la metteva tutta a spostare i sacchi uno dopo l’altro. Era tutto sudato, forse una bestemmia gli sarà scappata. Che prete! Quel prete lì si che mi piace!».
Arriva Pierluigi Vignati: «Cento metri prima del cimitero c’è un altro fontanazzo, è da un po’ che lo dico ma qui nessuno si muove». Chiedono alla protezione civile di andare a vedere ma bisogna attendere gli ordini. Fra i volontari noto suor Teresa: fra un sacco e l’altro prega in cuor suo che non succeda niente. Sono le 22.30. Un altro fontanile è stato bloccato. I volontari rifiatano. Scende una leggera pioggerellina.
I fratelli Vignati e qualcuno della protezione civile si spostano a tamponare la falla verso il cimitero. Qualcuno torna a casa e io con loro. Incrociamo un mezzo dei vigili del fuoco che traina un gommone, poi due camion. Di fianco a Villa Litta un folto gruppo di oriesi con tre consiglieri comunali è in ansiosa attesa di notizie. La sabbia è finita e altra non ne arriva. I volontari a gruppi tornano a casa. Don Gianfranco rientra alle 24.20.
Fu un’alluvione paurosa e disastrosa quella del 1994. Che iniziò a fare danni in Piemonte, dove si registrarono decine di morti, e lasciò un segno indelebile anche nel Lodigiano, con il crollo del ponte di Bertonico sull’Adda nella mattinata del 9 novembre, quando ormai il Po e i suoi affluenti (anche il Lambro faceva paura) stavano calando di livello ma evidentemente avevano minato la stabilità di tanti manufatti. “L’incubo di un altro 1951” titolava “il Cittadino” il giorno prima, raccontando come le comunità rivierasche fossero tornate a vivere il terrore della precedente furiosa piena del Grande Fiume di oltre quarant’anni prima. Tanto che quasi duecento persone furono costrette a lasciare la propria casa tra Corte Sant’Andrea, Guzzafame, Gargatano, Valloria e Castelnuovo fra il 7 e 8 novembre, quando il livello dei fiumi continuava a salire sulle scale idrometriche. E se qualcuno si era mosso autonomamente senza attendere le ordinanze di sgombero dei sindaci, ci fu chi si rifiutò di “obbedire” preferendo trascorrere una notte d’ansia lì dove viveva. Fortunatamente gli argini hanno retto e non ci sono stati allagamenti al di fuori delle aree golenali. E anche il crollo del ponte sull’Adda non fece vittime.
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