Don Olivo Dragoni, un vero uomo di Dio
Lo scrittore Maietti, don Chioda e don Cazzulani ricordano il sacerdote formatore di tanti missionari
Certe volte il ricordo di don Olivo Dragoni si fa spazio nel mio cuore. È una figura che, involontaria-mente, mi ha sempre fatto sentire in difetto: immensa la sua capacità di accogliere, di fare festa, di dare seguito ai nostri precedenti incontri, come se dall’ultimo fosse passato poco tempo, e non magari due anni. Come sanno fare gli amici veri, quelli dal cuore grande. Lo incontravo per ragioni legate al giornale: ero io che dovevo intervistare lui, e invece finiva al contrario, con lui che chiedeva e domandava, anche come me la cavassi nella vita, e se intuiva una zona d’ombra non mi offriva consigli, ma un diverso modo di guardare alle cose. Certe volte stavamo in silenzio per lunghi momenti, e poi le riflessioni sbocciavano spontanee, come se quei silenzi avessero prodotto domande: che ne dici, Eugenio, m’incalzava. Coraggio, coraggio! Ad ogni incontro, ho sempre pensato che, in fondo, non ci unisse nulla. E in cambio ho ricevuto una co-stante proposta di sincera amicizia. Era un prete che non si scandalizzava di nulla, non giudicava il peccato, ma lodava ogni minimo spiraglio di luce, e assumeva su di sé la sofferenza delle cose malfatte e nate storte, generate nel mondo e nell’indifferenza: ma cosa ha fatto Gesù, se non dare la sua vita per noi, per meritare tanto ostracismo, diceva nei momenti più cupi. Penso sia giusto, in questo mese di novembre, apertosi con la Commemorazione dei defunti e di tutti i Santi, dedicargli un ricordo. Ho chiesto a tre suoi amici, lui che ne ebbe tantissimi in tutto il mondo, un ricordo di don Olivo.
Il ricordo di Andrea Maietti
Racconta lo scrittore Andrea Maietti: «Di lui ho amato la capacità di ascoltare e di trovare sempre una parola di conforto. I primi contatti con don Olivo risalgono alla fine degli anni Sessanta, quando era direttore alla Casa della gioventù ed io curavo la rivista “Giorni nostri”, mensile con posizioni estreme all’interno della Chiesa. Era, già a quei tempi, un uomo generoso, con una forza che portava al suo limite: incontrava i giovani che volevano parlargli sino alla mezzanotte, ovvio che qualche volta crollasse dallo sfinimento, ed in un’occasione si rese necessario un ricovero per garantirgli di recuperare le energie; proprio in quella circostanza, scrissi un editoriale in cui lo invitato alla prudenza, cioè a risparmiarsi. La sua risposta fu esemplare: si fa quello che si deve, e ciò val bene pure un ricovero, ma forse, più che sulle mie forze, dovrei avere più fiducia in quelle del Signore! Coscienzioso ed al tempo stesso ironico. Celebrava la Messa anche in casa degli amici e a chi era talvolta nella difficoltà di trovare risposte nella fede, suggeriva: aspettare, pregare, e non cessare mai di amare. Olivo era fatto così, di un’umanità speciale».
Il ricordo di don Davide
Fu il mio primo parroco, nel 1987, quando era il pastore della parrocchia di San Bernardo a Lodi. E, trentadue anni dopo, fui io il suo, nella parrocchia di San Martino in Strada.
Don Davide Chioda svela la toccante immagine di un cerchio che si chiude: «Fu il mio primo parroco, nel 1987, quando era il pastore della parrocchia di San Bernardo a Lodi. E, trentadue anni dopo, fui io il suo, nella parrocchia di San Martino in Strada. Quando fui ordinato avevo 24 anni, e ho vissuto con don Olivo i miei primi sei anni di vita sacerdotale, abitando la stessa casa, anche in compagnia della sua mamma. Si creò quindi un clima famigliare, malgrado io sino a quel momento lo conoscessi solo di fama: un rapporto di stima e di affetto, consolidatosi poi nel tempo. Verso la fine di quell’esperienza lui ebbe i primi segnali di quella malattia degenerativa che si rivelò irreversibile. E lì dimostrò di essere vero uomo di Dio: l’accettò, senza cedimenti. Costretto a periodi di ricovero, la sua presenza era comunque reale e concreta, attraverso bigliettini, lettere, riflessioni, che mi mandava e che oggi custodisco gelosa-mente, perché per me è stato davvero un padre. Quando peggiorò venne il vescovo monsignor Capuzzi per ratificare le sue dimissioni portando conforto al Consiglio pastorale. Presi la parola: per essere parroco non occorrevano solo le gambe, lui che era già costretto alla carrozzina, ma testa e cuore, e lì don Olivo sopravanzava chiunque. Ebbe un attimo di commosso cedimento, si ritirò in chiesa a confidarsi col Signore, ma confermò il proprio ritiro. Quando il vescovo Maurizio mi chiese di lasciare Tribiano per venire a San Martino, sapevo di ritrovarlo. Lui era preoccupato di dovere andare via, sentendosi per le sue menomate condizioni fisiche un peso: ma come lui aveva accolto me, quando ero un giovane prete, io adesso avevo l’occasione di riabbracciare lui e di riprendere a condividere il nostro percorso. Furono tre anni intensi e speciali, sino all’ultimo soffio della sua vita terrena».
Il ricordo di don Guglielmo
In seminario, durante il periodo formativo, aspettavamo sempre con ansia e gioia le sue visite.
Il ricordo di don Guglielmo Cazzulani, parroco della chiesa di San Bernardo a Lodi, è ricco di aneddoti e di commozione: «In seminario, durante il periodo formativo, aspettavamo sempre con ansia e gioia le sue visite. A quel tempo lui viveva sei mesi a Verona, formatore dei missionari che partivano per l’America Latina, mentre la restante parte dell’anno li raggiungeva in loco, attraverso i tragitti più av-venturosi, anche a dorso di un mulo, piuttosto che su mezzi sgangherati, e lì viveva intensamente la sua missione e l’incontro con il prossimo. Poi, quando tornava, ci raccontava storie e situazioni che altrimenti, tramite i canali ufficiali di comunicazione, non avremmo mai appreso. Racconti di missionari martiri, che avevano pagato con la propria vita o con lunghi periodi di galera il prezzo alla loro fede ed alla loro coerenza. Ricordo, fra gli altri, l’esperienza di un prete che aveva attrezzato un orfanotrofio divenendo realmente padre di tantissimi bambini; o quella di un altro prete, in Perù, che operava in una comunità di gente che lo aveva ospitato ma con un evidente senso di ostilità: lui aveva lasciato la propria casa aperta, a tutte le ore, anche della notte, lasciando sempre a disposizione una tazza di tè, ed entrando così a poco a poco nel cuore della gente». Prosegue don Guglielmo Cazzulani: «So di doverlo ringraziare all’infinito, perché per me, allora giovane prete, esercitò una paternità spirituale: eppure non mi dette mai un consiglio, mi ascoltava, mi accompagnava, mi indicava magari una riflessione di carattere generale, ma poi nello specifico le decisioni erano pur sempre solo mie. Aveva, fra gli altri, un grande dono: intuiva il vissuto di una persona. In questo era davvero formidabile. Sembrava transitato dentro le esperienze degli altri. Uso una parola complessa: cardiognosi, cioè la conoscenza del cuore dell’altro, come dicevano gli antichi padri. In questo era davvero un maestro». Poi don Guglielmo ricorda la capacità d’ironia di don Olivo: «Quantunque sulla sedia a rotelle, allorché gli si chiedeva come stesse, replicava sempre: bene, bene, con gli amici! Mi aveva convinto ad accompagnarlo in alcuni suoi viaggi in America Latina, ma una volta lo avvisai di non riuscire, perché avevo l’ingresso nella parrocchia di Brembio; lui mi disse: lo sposti, non sei mica così importante che tutto gravita attorno a te! Sapeva sdrammatizzare le cose della vita, con un sorriso sempre sornione». Poi don Guglielmo racconta un simpaticissimo aneddoto: «Stavamo partendo per l’Ecuador, eravamo in aeroporto, non proprio con gli abiti da prete, ma qualcosa lasciava intuire che lo fossimo. Una hostess domandò: ma voi siete preti? La risposta di don Olivo fu unica e magistrale: sì, diciamo che facciamo un tentativo per esserlo. Ma, al di là di questa straordinaria ironia, don Olivo sapeva regalare la speranza, quella vera, quella concreta, anche quando le cose sembravano non volgere proprio al meglio». Così, stasera rileggo un suo libro, “Contagiare la speranza”, che raccoglie una serie di suoi scritti missionari (qualche preziosissima copia può ancora trovarsi presso l’Ufficio diocesano del Centro missionario), e trovo proprio questa prospettiva della svolta, del cambiamento: laddove il pozzo si fa più arido, lì è più forte il bisogno della speranza, sta scritto in una pagina. È un libro attraverso l’umanità più diversa, nomi, storie di vita, e soprattutto volti: quelli che don Olivo amava incontrare e soprattutto riconoscere. Perché ogni incontro ha in sé una sua luce, e riconoscerla è la cifra dell’amore del Padre.
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