Avere vent’anni, in Italia

Che cosa significa avere vent’anni in Italia oggi? Proviamo a dare un’occhiata al quadro attuale del BelPaese e alle prospettive che apre, se ne apre. L’economia è stagnante, a ben vedere da prima di una crisi mondiale che non ha fatto altro se non accelerare un declino già in atto, del nostro Paese in particolare, dell’Europa più in generale. Il nostro mercato del lavoro è oggettivamente incapace di valorizzare la preparazione e il merito, ingessato com’è da aree ultragarantite da un lato (il riferimento è agli ordini professionali). E’ oramai constatato il deludente esito dell’introduzione della cosiddetta flessibilità (di per sé una cosa che può essere anche positiva se non sfocia nella precarietà) in un sistema ben poco liberalizzato, trasparente e formale. A ciò si aggiunga l’assenza di una flexsecurity, ossia la necessaria rete sociale di protezione in un mercato del lavoro connotato da una forte flessibilità.

Siamo, inoltre, alla quasi immobilità sociale: sempre più difficile è, infatti, la possibilità di migliorare la propria condizione sociale. Questo è a grandi linee il panorama a tinte fosche dell’economia italiana.

Immaginiamo che il nostro ipotetico ventenne si trovi a dover effettuare delle scelte per il suo prossimo futuro lavorativo oggi, in questa situazione.

Una prima opzione potrebbero essere gli studi universitari, con la consapevolezza però che il proprio arricchimento in cultura non si traduce in un aumento proporzionale delle possibilità di trovare un impiego qualificato e in linea con le proprie aspettative. A meno di non scegliere di emigrare verso i Paesi anglosassoni e del Nord Europa, nei quali con la cultura si può mangiare, e anche guadagnare bene. Dal punto di vista dell’Italia è un’emorragia che causa danni incalcolabili.

L’alternativa è inserirsi immediatamente nel mondo del lavoro. Per effettuare tale scelta occorrono adattibilità, scarse pretese e soprattutto conoscenze.

Ma le cose possono cambiare, anzi le cose cambiano. Lo scenario futuro può essere e sarà differente.

Tuttavia se volgiamo lo sguardo alla classe politica italiana, ovvero a chi avrebbe il compito di guidarci verso questo futuro e fare le scelte politiche, è facile perdere la fiducia e cadere nel profondo sconforto.

Quel che è certo è che il nostro ipotetico ventenne non ha colpe per la disastrosa situazione economica attuale, per il debito pubblico, lo spread che aumenta vertiginosamente, i disastri di una certa finanza, la sovrappopolazione, le nuove povertà, il riscaldamento globale, l’irreversibile deturpamento del paesaggio.

Se c’è qualcosa di buono nelle crisi economiche è il fatto che possono favorire o accelerare il rilancio di una concreta azione politica e l’apertura al nuovo. Uno dei primi paesi a farne esperienza è stata la piccola Islanda, portata al collasso finanziario da alcune banche decisamente spericolate già nel 2008.

La protesta dei cittadini islandesi ha portato alla formazione di un nuovo Governo e - fatto inedito - alla riscrittura della Costituzione; operazione ancora in corso aperta ai contributi di tutti, tramite anche l’utilizzo dei social network.

Al di là dell’ipotesi discussa che il modello di fallimento controllato operato dallo Stato islandese (al momento un piano di riparazione dei debiti verso l’estero non è ancora in atto, essendo stato bocciato per ben due volte per via referendaria) possa essere esportabile altrove, è il segnale del risveglio politico mostrato da questa vicenda che mi pare importante. Ed è questo il «vento islandese» che ha alimentato, insieme alla Primavera araba, il movimento degli Indignados spagnoli sorto nel maggio di quest’anno. Un movimento che vede nel mondo finanziario, ancora più che in quello politico, l’imputato delle maggiori colpe della crisi attuale, ma che propone anche una decisa spinta al rinnovamento delle democrazie odierne, un rinnovamento all’insegna della partecipazione politica, della democrazia diretta, della responsabilità, dell’etica pubblica. Quindi, a partire proprio dalla politica. Quello che il sociologo tedesco Ulrich Beck chiama “lo sguardo cosmopolita”.

Si può ovviamente discutere in merito a questi progetti, alla loro realizzabilità, alla loro bontà. Per esempio, considero la democrazia diretta un miraggio (nemmeno la democrazia ateniese a ben guardare lo era), attuabile (e attuata) senza danni e degenerazioni solo su piccolissima scala.

Ma non si può negare che i correlati progetti di favorire la trasparenza dell’attività pubblica, la partecipazione e un’etica democratica, siano veramente importanti. Così come non si può biasimarne la carica utopica, operazione svolta spesso nel nome di un declamato realismo che in realtà è cecità.

Dalla Spagna l’indignazione ha contagiato ormai tantissimi altri paesi: anche gli Stati Uniti, a cominciare proprio da New York e Wall Street, quello che è il centro mondiale del potere economico finanziario - o forse che lo era, ma di cui è senz’altro ancora il simbolo. E anche l’Italia, dove però la recente giornata di mobilitazione mondiale del 15 ottobre 2011 ha comportato – unico caso nel mondo – anche violenti scontri di guerriglia urbana.

«Noi siamo il 99%» è uno dei motti della protesta. Dovrebbe leggersi come obiettivo più che come constatazione. Solo se questa protesta riuscirà a convincere la maggioranza della cittadinanza della bontà, della possibilità e – ancor più – della necessità di questa sua battaglia potrà davvero smuovere qualcosa e non spegnersi in nulla o - peggio - degenerare in violenza inutile, come è stato l’esito di molte proteste che hanno contraddistinto il secolo scorso. Per fare ciò occorrono impegno, intelligenza, creatività, costanza. Di certo non la violenza, che sarebbe anzi l’auspicio di tutte le forze desiderose di conservare lo status quo, uno status quo però che, se mantenuto, è facile che ci conduca in guai anche peggiori di quelli in cui già ci troviamo.

La democrazia più che un fatto è un’ideale, qualcosa da costruire. Siamo forse in un momento storico in cui possiamo aggiungere ben più di qualche mattone a questa costruzione, e creare così le condizioni perché molte delle crisi attuali non si ripresentino. Ma sarebbe già qualcosa rendere questo mondo un tantino più vivibile. O anche solo un colpo di reni da un declino che è sotto gli occhi di tutti.

Forse il futuro del nostro ipotetico ventenne non è così grigio come sembra: una flebile luce di speranza ancora lo illumina.

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