Secondo le statistiche internazionali, l’economia italiana è ferma e non dà segnali di ripresa. Non stanno meglio i Paesi più blasonati dell’Unione Europea, con un Pil che sfiora lo zero, mentre l’est europeo e asiatico, che prima non erano neppure riportati dalle classifiche, tirano come una locomotiva. Se crediamo alla teoria dei corsi e dei ricorsi storici, dobbiamo arguirne che un ciclo industriale si chiude e un altro prende inizio, dominato dalla civiltà globale. Un ciclo pieno di incognite, perché non si capisce se l’agricoltura avrà un ruolo egemone, come attesta l’entusiastico consenso sull’economia verde, o se, invece, continuerà il suo inarrestabile declino, come sembrano indicare i risultati attuali della gestione economica delle aziende lodigiane. Il riferimento all’agricoltura padana è d’obbligo, perché questa ha costituito la forma imprenditoriale più famosa e spettacolare che sia mai esistita sulla faccia della terra, ma oggi vive una crisi di fiducia e di identità, messa all’angolo dai conti in rosso e più che mai tentata dall’avventura immobiliare, quale rimedio estremo.
La cascina è sempre al centro dell’organizzazione economica e produttiva, ma non è più quella di una volta. Ha subito un cambiamento radicale dagli anni Sessanta, in concomitanza con l’intensificarsi di grandiosi processi socio-economici, quali lo sviluppo dell’industria fordista e artigianale, l’immigrazione dal Mezzogiorno e l’esodo rurale.
La comunità rurale, che ivi viveva e lavorava con dedizione e spirito di sacrificio, si è dissolta in un grande vuoto sociale e spirituale. Dell’antico insediamento è rimasto il guscio, vale a dire la struttura produttiva con i suoi immensi fabbricati, i silos e le casette disabitate dei salariati, allineate in un lato, che trasmettono tenerezza e desolazione. La storiografia agraria evidenzia, però, che in quelle antiche e possenti strutture il lavoro era particolarmente duro e miserevoli erano le condizioni di vita dei salariati.
Questo non è ciò che pensano coloro che in cascina hanno lavorato una vita. Se provate a intervistare alla buona, come ho fatto io, le persone che hanno fatto questo mestiere, ci si accorge che i giudizi espressi sull’ambiente della cascina e sulle condizioni di vita dei lavoratori sono tutto sommato positivi, “considerati i tempi”. Non c’era ovviamente lo spirito consumistico di oggi, bisognava “contentarsi”.
Viene ribadito dai grandi vecchi il concetto che un lavoratore onesto e capace non trovava ostacoli o difficoltà, e questo è un chiaro segno che la cascina era organizzata secondo criteri legati al merito, che oggi sono stati ahimè perduti dalla società laica e industriale. A voler credere a queste testimonianze, è molto plausibile ritenere che sulla cattiva fama “sindacale” abbia pesato una visione riduttiva, in altre parole l’angolo visuale di una società abituata al benessere e alle comodità, che tutto vuole e tutto pretende.
Che tali giudizi siano rispondenti al vero, si può anche desumere da alcuni saggi giornalistici, che danno un contributo per ricostruire la storia dell’agricoltura padana. Essi confermano che in cascina si stava in modo decoroso e addirittura pongono la vita in cascina in una dimensione magica e poetica, sia per le qualità umane e professionali dei personaggi, sia per lo spirito di collaborazione e solidarietà che univa le famiglie dei lavoratori. Tra questi articoli voglio ricordare quelli pubblicati in questi giorni dal quotidiano “la Repubblica” e scritti da Paolo Rumiz, i quali percorrono l’Italia rurale e contadina alla ricerca di luoghi perduti, intendendo per tali quelli che un tempo erano sede di fiorenti attività economiche e che oggi cadono a pezzi, abbandonati e dimenticati da tutti. E’ interessante osservare che tali luoghi della memoria comprendono anche quelle che un tempo furono le grandi cascine del Cremasco e dell’area padana in genere.
Il Cittadino, in verità, ha il merito di avere cominciato prima, pubblicando una lunga serie di articoli sugli insediamenti rurali del Lodigiano, a cura di Eugenio Lombardo, che rievocano “le vicende, le memorie, le figure di un mondo contadino scomparso”. In questi saggi è da rimarcare una singolare convergenza. Il tipo di approccio si affida alla poesia e al sentimento, ma non perde la sua forza storiografica e il rispetto della verità, mentre viene data assoluta preminenza a personaggi di umili incombenze, quali mungitori e cavallanti, mansulè e menalat, assoluti protagonisti dell’epos contadino.
Concludo esprimendo la mia piena condivisione sul senso di queste ricerche e sugli utili ammaestramenti che se ne possono ricavare.
Ho, infatti, la certezza che l’operaio metal meccanico di oggi non sta sicuramente meglio di un salariato agricolo di ieri, soprattutto se è un pendolare che lavora a Milano o in altra città e sta fuori non meno di dodici ore al giorno. E poi non è neanche da sottovalutare l’uso dell’abitazione. In cascina il salariato trovava una casetta e un focolare. Oggi, invece, l’operaio metalmeccanico, per avverare il sogno di un nido per la sua famigliola, deve contrarre un mutuo e caricarsi di debiti fino al collo.
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