“Leading from behind” è stato il motto che ha guidato la politica estera negli otto anni di Barack Obama. Orientare il mondo ma dalle retrovie, non ingerirsi più di tanto, uscire se possibile dai teatri di guerra. Una strategia controcorrente rispetto a decine di anni di Stati Uniti superpotenza mondiale, anzi super-poliziotto del mondo. Siamo abituati ad immaginare interventi dei marines ovunque “serva”.
Ma non serve più. Perché una delle principali – la principale? – ragione dell’interventismo globale americano era dettata dalla necessità di avere sicuri approvvigionamenti energetici, vitali per la prima potenza economica del mondo. Il petrolio mediorientale, anzitutto. La controprova? Non si ricordano interventi americani di alcun tipo nel centro e sud del continente africano, terra povera di idrocarburi. Non è “strategica”.
Ma questi ultimi anni hanno portato una rivoluzione esiziale nel settore energetico. Lo sfruttamento degli scisti bituminosi ha reso gli Usa la seconda potenza produttrice del mondo, ormai all’autosufficienza energetica. Tanto da rimuovere la legge, approvata negli anni Settanta, che impediva di esportare petrolio americano all’estero. Di più: gli Usa potrebbero inondare il pianeta di petrolio e gas, se il loro prezzo dovesse rialzarsi.
Ecco che il Medio Oriente, zona calda del mondo per eccellenza almeno dagli anni Cinquanta del secolo scorso, è tornato ad essere meno rilevante. La Siria? Dove sta la Siria?, tanto per dire.
Ora l’interesse statunitense si è decisamente voltato ad ovest, non è più l’Atlantico fondamentale (tanto che il neo-presidente Trump ha tantissima voglia di tagliare fondi e mezzi alla Nato), ma il Pacifico: di là ci stanno la Cina, il Giappone, le Coree, i Paesi dell’Asean (Indonesia, Filippine, Malesia, Vietnam…) che da soli hanno più abitanti dell’Europa comunitaria. Sullo sfondo, il subcontinente indiano e la Russia siberiana.
Qui vive la metà dell’umanità, qui ci sono nuovi mercati, qui una superpotenza aggressiva (la Cina): insomma la carta geografica del mondo, con l’Europa in mezzo e Asia e Americhe sui lati, sta ruotando. E a finire emarginata è appunto l’Europa: divisa, debole, incapace di affrontare qualche barcone di immigrati dalla Libia, di “mettere ordine” anche dentro il cortile di casa (Bosnia, Kosovo, Ucraina). Un mercato economico ricco ma “maturo”, che non riesce a collegarsi con quello americano, con una moneta che è concorrenziale con il dollaro.
L’America first che è invece lo slogan trumpiano, fa capire che l’isolazionismo statunitense, almeno nei confronti dei vecchi alleati, proseguirà. È vero che l’altro slogan che ha fatto la fortuna del neo-presidente è stato “Make America great again” (facciamo grande di nuovo l’America), ma il percorso di questa rinnovata grandeur non passerà presumibilmente attraverso l’Atlantico. Abituati come siamo all’intervento del babbo americano, dovremo crescere con le nostre gambe. O rassegnarci al decentramento geo-politico e quindi economico che stiamo rapidamente assecondando.
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