La parabola degli operai mirabilmente narrata dal Vangelo (Matteo 20, 1-16) è, nel suo lato nascosto, una lezione magistrale sull’etica e la sacralità del lavoro. Essa mi torna alla mente tutte le volte che sotto le luci della scena mediatica partiti politici e sindacati si fronteggiano in un aspro confronto sulla necessità di abolire l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori che, ponendo un argine ai licenziamenti illegittimi, tutela il lavoro in ottemperanza agli articoli 1 e 35 della Costituzione. Come è lontana la visione evangelica dal comune sentire e dalle sottili disquisizioni della politica! Ritengo tuttavia che in tema di lavoro il pensiero della sinistra le è più vicino e congeniale, anche se le frammentazioni e le lacerazioni in seno ai partiti rendono problematico stabilire una linea di demarcazione tra ciò che è di destra e ciò che è di sinistra. Intanto c’è da osservare che tanto il linguaggio del Vangelo è semplice, diretto e provocatorio, quanto quello politico e sindacale è ambiguo e complicato, come se la difficoltà basilare del mondo moderno risiedesse proprio nella complessità e nella incomunicabilità. Al centro c’è la vigna con tutta la carica simbolica e totalizzante che essa assume sotto il profilo materiale e spirituale. Essa ricorre frequentemente nel racconto biblico ed evangelico in quanto coltura agraria più rappresentativa dell’ordinamento fondiario, fonte primaria di vita e sostentamento. Tutto ruota attorno alla figura di un buon padrone che va alla ricerca di operai da mandare a lavorare nella sua vigna. Non aspetta che folle derelitte di disoccupati riempiano le piazze a questuare un lavoro qualunque, e non si fa precedere da feroci caporali che squadrano dall’alto in basso e dicono in modo perentorio: - Tu sì e tu no. E’ invece lui che va a cercarli uno per uno, dalla prima all’undecima ora, a tutti promettendo quel che è giusto. Non vuole che ci siano sfaccendati e gente che non ha nulla da fare, mentre la sua vigna ha urgente bisogno di cure e interventi. Chiede già conoscendo la risposta: - Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far nulla? Rispondono mortificati: - Perché nessuno ci ha preso a giornata. Segno evidente che altri padroni non sono altrettanto solerti e creativi e quando questo accade la macchina produttiva si inceppa e lo stato sociale ed economico collassa. A pagarne le conseguenze sono soprattutto i ceti meno abbienti: operai, salariati, braccianti e contadini. Abbiamo parlato di buon padrone, uno che assume operai quando altri sprangano le porte e licenziano. Ma la sua diversità non è tutta qui. E’ anzitutto un imprenditore accorto e lungimirante che punta all’efficienza e alla produttività e ha capito una cosa importante: la ricchezza nasce dal lavoro e senza lavoro non c’è né crescita né benessere. Ed è tanto sicuro di tale verità che è disposto a corrispondere a tutti i lavoratori della vigna lo stesso identico salario, pagando quindi un prezzo superiore a quello che risulta dal puro conteggio aritmetico delle ore lavorate. Ingenuità e dabbenaggine? Niente affatto. Negli anni del boom economico, quando il sindacato contava di più e le iniziative assistenziali e sociali a favore dei dipendenti e dei familiari erano molto diffuse soprattutto a livello di alcune grandi imprese quali, ad esempio, Fiat, Ignis e Olivetti, l’economia nazionale andava a gonfie vele, mentre oggi la marginalizzazione del lavoro, l’esplosione del precariato e i bassi salari hanno spalancato le porte a una crisi forse irreversibile. In conclusione, non si può imputare ai sindacati la colpa di tutto questo sconquasso e non sono gli ultimi dell’undecima ora la palla al piede del sistema economico, ma piuttosto le politiche socio-economiche che privilegiano sfacciatamente l’area del profitto e del management a scapito del lavoro subordinato. Il Vangelo annuncia lapidario la sua rivoluzione, che è quella di chiudere i conti con la storia “cominciando a pagare dagli ultimi fino ai primi”. Così gli ultimi saranno i primi, e i primi gli ultimi.
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