«Ci divisero in gruppi, sempre sul piazzale, e ad uno ad uno ci fecero spogliare nudi. Bisognava dividere i capi di vestiario per mucchi distinti; io, non avendo individuato il mucchio delle cinghie, presi subito una decina di nervate. Un’entrata subito brutale. Ci trasferirono poi in un bagno posto sotto il piano del piazzale, le finestre erano sprovviste di vetri, ogni tanto ci bagnavano con getti di acqua fredda. Lì rimanemmo tutta la notte, somiglianzaappiccicati uno all’altro per ripararci dal freddo e dai getti d’acqua che arrivavano all’improvviso. Arrivò il mattino e ci accorgemmo che c’erano già alcuni morti per polmonite, altri erano vicini alla fine». È il racconto del lodigiano Gianfranco Mariconti, reduce dal campo di sterminio di Flossemburg, al confine con la Cecoslovacchia.Ed è il racconto di Primo Levi, di Boris Pahor, di quei pochi che hanno fatto ritorno dalla discesa nel male assoluto. O, forse, nella banalità del male, agito da uomini comuni, ordinary men mediocri e inconsapevoli delle proprie azioni, volonterosi di svolgere al meglio il proprio lavoro per ben figurare con i superiori.Le immagini della disinfezione di uomini rifugiati, nudi e tremanti, nel CIE di Lampedusa richiamano Auschwitz e lo sterminio: lo stesso disprezzo per la dignità umana, la stessa gerarchia tra persone interiorizzata a legittimare l’offesa, la stessa brutale disinvoltura nei gesti e nelle parole (il «Dai dai, muovetevi» degli operatori ai migranti traduce quasi alla lettera il ben noto «Allen raus, raus» impartito dalle SS ai deportati). La stessa banalizzazione del male, la stessa inconsapevolezza, lo stesso richiamo alle buone intenzioni e alle azioni compiute «per ordine superiore». «Questo è stabilito dai protocolli medici» ha dichiarato il responsabile della cooperativa che fino a pochi giorni or sono gestiva il Centro di Lampedusa». A Norimberga, a conclusione del processo ai nazisti responsabili di crimini contro l’umanità, è stato stabilito per sempre che «alle azioni manifestamente criminali non si deve obbedire». Un principio presente nel diritto di ogni nazione civile. Anche della nostra.E non si dica che non si sapeva quanto accade nei CIE, i Centri di Identificazione ed Espulsione istituiti con Decreto Legge 92/2008 – “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica” –, poi convertito nella Legge 125 dello stesso anno. Da allora, infatti, le associazioni di tutela delle persone migranti e rifugiate denunciano le condizioni di vita inumane all’interno di questi luoghi tanto simili a carceri, finalizzati a sorvegliare stranieri irregolari, di fatto a punirli attraverso una detenzione dai tempi incerti (fino a diciotto mesi) e di dubbia legittimità costituzionale, in quanto le persone scontano uno status loro attribuito, non un’azione che hanno commesso.Penitenziari e CIE sono istituzioni totali (al pari di lager e ospedali psichiatrici), ove gli internati (siano detenuti o migranti) sono separati dal mondo esterno e sottoposti a un rituale di ammissione sempre identico, che così descrive Erving Goffman: «fare la storia, fotografare, pesare, prendere le impronte, assegnare numeri, indagare, fare la lista di ciò che la recluta possiede per depositarlo, spogliare, lavare, disinfettare, tagliare i capelli, consegnare i vestiti all’istituto, istruendo il nuovo entrato sulle regole della comunità e assegnargli l’alloggio». Il punto centrale della procedura è la nudità fisica: la costrizione a togliersi gli indumenti e mostrarsi a sconosciuti (anche di sesso diverso dal proprio) quali nudi corpi, nude vite, in balia di operatori o guardie. Un punto di cui agli uomini detenuti risulta arduo parlare, anche a distanza di tempo, quasi non fosse possibile pronunciare l’oltraggio, se non mossi da disperazione (i migranti di Lampedusa) o da necessità di testimoniare l’indicibile (i sopravvissuti allo sterminio).«Poi ci hanno portato alle docce, dove ci hanno frugato con cattiveria, dopo averci spogliato: per farci abbassare la cresta, se a qualcuno fosse rimasta dopo la prigione. Ci mandavano in blocchi in uno dei locali delle docce, dove gli ufficiali stavano seduti sulle sedie vicino al muro. All’inizio ci hanno tolto la biancheria come fosse la buccia di una cipolla e poi, dopo averci permesso di tirar su le mutande, ci hanno ordinato di rovesciare sul pavimento il contenuto delle nostre sacche. Noi nudi, accovacciati, loro vestiti, sulle sedie. Umiliante come ad Auschwitz» scrive Eduard Limonov, oppositore politico di Vladimir Putin, rievocando il suo ingresso nella colonia penale n. 13, nella regione di Saratov.La sopraffazione è connaturata alle istituzioni totali, siano esse CIE o penitenziari: in una nazione civile non dovrebbero esistere luoghi nei quali alcune persone hanno un potere tanto grande su altre. Il rigido sistema di prescrizioni e divieti, la negazione del diritto dell’altro alla dignità, la violenza neppure percepita come tale da parte di chi la agisce diventano inevitabili. Le immagini dei rifugiati nudi e tremanti di Lampedusa hanno determinato l’apertura di un’inchiesta da parte dell’Unione Europea «sul trattamento spaventoso» riservato ai migranti nei CIE italiani. E già, come noto, due sentenze di condanna al nostro paese sono giunte dalla Corte europea per i diritti dell’uomo: sotto accusa è il sovraffollamento carcerario, condizione degradante, che nessuno merita, perché il male di Auschwitz e la Resistenza europea ci hanno insegnato che nessun essere umano può essere privato di dignità e rispetto. Senza eccezione.Nel suo viaggio verso il bene assoluto, nel XXXII canto del Paradiso, Dante contempla il volto umano di Dio: Maria, colei «che a Cristo più si somiglia»; e nel XXXIII, nella visione del mistero della Trinità, gli appare dipinta nel Figlio «la nostra effige», la figura umana. Il poeta ci ricorda dunque che ogni uomo o donna ha in sé traccia del divino. E che, se visto dall’alto, come lui lo vede dal cielo delle Stelle fisse nel canto XXII, il pianeta Terra è solo un’«aiola», l’«aiola che ci fa tanto feroci». Per cosa, poi? Per niente, davvero per niente…
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