Il quadro di recessione in atto nel nostro paese, con i pesanti riflessi sulla situazione sociale ed occupazionale, la discussione in atto rispetto ai provvedimenti da prendere per rilanciare la crescita e la difficoltà ad individuare le scelte da fare per darvi seguito, rendono necessarie alcune considerazioni in merito alle politiche adottate dal Governo dei Tecnici presieduto dal Prof. Mario Monti. E’ opinione comune che i provvedimenti dei primi cento giorni di governo siano serviti a mettere in sicurezza i conti pubblici, assicurando il raggiungimento del pareggio di bilancio nel 2013, ma la recessione in atto rischia di vanificare questo obiettivo e di rendere, come dicono i veneti “el tacon pejor del buso” innestando un circolo vizioso da cui, come vediamo, è dificile trovare il modo di venirne fuori. Sono convinto, e questa è la riflessione che mi sento di portare, che se non si modifica alla radice la politica economica che è stata fino a qui seguita difficilmente riusciremo ad uscire da questa situazione. E’ necessario oltretutto ricordare che tale impostazione risulta ancora quella che è stata assunta, a partire dall’agosto dello scorso anno, dal Governo Berlusconi Tremonti dando il la, con interventi sempre più pesanti, a questa situazione recessiva, anche allo scopo di nascondere la sottovalutazione che vi era stata della crisi in atto, sottovalutazione che ci ha portato sull’orlo del precipizio. Il presidente del Consiglio Mario Monti è persona sicuramente stimabile, ed il suo apporto ha ridato al nostro paese quel minimo di prestigio internazionale necessario per potere sedere dignitosamente ai consessi internazionali e tornare a fare valere anche le nostre opinioni. Si professa allievo di James Tobin, universalmente noto per la Tobin Tax, meno noto per essere esponente di quella corrente di pensiero che si è opposta a coloro che ritenevano che l’unico strumento di politica economica utilizzabile fosse il governo della moneta (i monetaristi della scuola di Milton Friedman che negli anni 70 utilizzando questi principi hanno creato danni inenarrabili in diverse nazioni, soprattuto del Sud America, in cui hanno prestato i loro servizi). Ma, alla luce delle scelte di governo fatte, penso si possa dire che, nella imposatazione del prof. Monti, abbia prevalso la sua formazione principale più vicina alla scuola monetarista che a quella keynesiana. Non mi sembra, infatti, che stia tenendo conto della lezione di fondo di J.M. Keynes, anche se oggi tutti si riscoprono keynesiani, che sull’analisi delle crisi delle economie capitalistiche e delle scelte da adottare per farvi fronte ha detto delle cose molto differenti dalle ricette che si stanno oggi applicando. Richiamo, a questo proposito, quanto dice un economista, non di scuola marxista, Hyman P. Minsky, allievo di Schumpeter e Leontief, il cui maggiore contributo alla teoria economica è relativo all’analisi delle cause di crisi dei mercati finanziari, che in un suo libro “Keynes e l’instabilità del capitalismo”, che vede una bella introduzione di Riccardo Bellofiore, dopo avere passato in rassegna l’interpretazione tradizionale dell’opera di questo economista, con una critica molto forte alle interpretazioni tradizionali, ed in modo particolare alla cosiddetta sintesi neoclassica ed allo schema IS-LM, che si è imposta come interpretazione autentica del suo pensiero, formula il seguente giudizio:”Additare nella rigidità (o nella non sufficientemente rapida velocità di aggiustamento) dei salari la causa di tutti i mali non è certo una posizione keynesiana: Keynes, infatti, riteneva che un ipotetico regime di salari flessibili avrebbe assai probabilmente peggiorato la situazione... La caduta del livello dei prezzi e dei salari tende ad innescare un processo deflazionistico creditizio tale da ridurre la quantità di moneta, il che non fa che aggravare la situazione del mercato del lavoro: prezzi e salari flessibili hanno effetti destabilizzanti”. Un giudizio che sembra tagliato sulla situazione odierna del nostro paese. E Riccardo Bellofiore, docente di Economia Politica all’Univesità di Bergamo, nella sua introduzione mette in discussione decisamente la politica di contenimento della spesa pubblica: “Nella prospettiva di Minsky... la spesa pubblica deve crescere in modo permanente come quota rispetto al PIL. Se è vero che la spesa pubblica corrente è bene che sia finanziata dalle imposte, il principio del pareggio del bilancio è accettabile esclusivamente se si è in regime di pieno impiego dei fattori produttivi. Di più quel principio non può essere esteso alla spesa per investimenti dello Stato, non può farsi valere per il conto capitale del bilancio pubblico....Un analogo approfondimento e riformulazione richiede l’idea di Minsky che vede nello Stato l’offerente di una occupazione di ultima istanza come sostegno ai consumi (e alla dignità) dei lavoratori... Meglio sarebbe parlare di “piano del lavoro” dello Stato che direttamente si fa garante di una piena occupazione stabile e di qualità. L’indirizzo concreto della spesa pubblica conta... Non ne mancano gli obiettivi: dalle infrastrutture a una riqualificazione ambientale, dalla mobilità e i trasporti all’energia, dalla salute all’educazione, dai servizi pubblici all’assistenza agli anziani; e si potrebbe conyinuare”. Tutti aspetti che, aggiungo, vedono invece, per effetto delle scelte di politica economica imperanti, il ritrarsi dello Stato. Esiste quindi un quadro teorico che rende possibile scelte differenti, ed il problema è definire le condizioni che ne rendano possibile l’affermazione. Sicuramente e prima di tutto, dobbiamo dire che abbiamo bisogno di un’Europa diversa. La tecnocrazia che sta determinando le scelte del nostro continente non corrisponde né allo spirito dei padri fondatori, che avevano in mente l’Europa dei Popoli e non quella della moneta e della finanza, né ai sacrifici che ognuno di noi è stato chiamato a fare per costruire un’Europa Unita (non è fuori luogo ricordare che è stato alto il prezzo che il nostro paese ha dovuto pagare per aderire all’euro). Per questo occorre spezzare la diarchia Merkel-Sarkozy e sicuramente un passaggio essenziale sarà il ballottaggio delle elezioni francesi del 6 maggio. Ma anche da parte del nostro Governo ci vuole più coraggio e per dare un segnale sarebbe sufficiente se non una vera e propria riduzione della pressione fiscale (sicuramente auspicabile, ma ancora oggi non nell’agenda di governo), almeno non procedere a ulteriori aumenti (come quello rappresentato dall’incremento di due punti percentuali dell’ IVA deciso per ottobre, che si ripercuoterà unicamente sulle spalle di chi ha meno e di chi soffre di più questa situazione di recessione); e dall’altra togliere i vincoli al patto di stabilità che ingabbia tutti gli Enti locali e non permette loro di contribuire ad una benchè minima prospettiva di uscita da questa situazione. Sono scelte proprie della politica, ed è chiaro che il vento che spira dell’antipolitica è funzionale al fatto che non deve essere possibile affermare scelte differenti. Sicuramente i nostri partiti ci mettono del loro per fare diventare questo vento una bufera. Ma mi domando, sono solo i partiti o non c’è qualcosa di più che rischia di modificare profondamente ed alle radici quelli che sono i fondamenti del nostro sistema democratico?
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