Cultura
Giovedì 15 Dicembre 2011
Calabresi «scommette sul futuro»
«Abbiamo smesso di pensare a un mondo migliore»
«Il problema è che avete insegnato ai vostri ragazzi a sognare con il freno a mano tirato». Per comprendere il perché oggi l’Italia sia il regno della paura per il futuro basta la frase pronunciata da una ragazza marocchina, una 13enne che aspira, un giorno, di diventare cardiochirurgo. Obiettivo non certo strampalato, perché Amal, tutti 10 in pagella, è stata scelta per rappresentare gli studenti liguri alle celebrazioni dell’Unità d’Italia in Parlamento. Da lei, e da tanti altri personaggi, noti e meno noti, arrivano i lampi di ottimismo che riempiono le pagine di Cosa tiene accese le stelle, l’ultima opera di Mario Calabresi, direttore della «Stampa» di Torino e ieri ospite del quarto incontro di “Pomeriggi con l’autore”, la seguita rassegna organizzata dalla Banca Popolare di Lodi presso il centro direzionale di via Polenghi Lombardo. Tanti gli spettatori che per un’ora e mezza hanno seguito l’appassionato discorso di Calabresi, introdotto dal direttore del «Cittadino» Ferruccio Pallavera. «Oggi un’ottimista viene considerato un po’ gonzo, ma io sono partito da un’altra prospettiva, cioè quella di evitare di abbandonarsi al pessimismo - ha raccontato Calabresi -. Ho voluto approfondire perché ogni giorno alla «Stampa» arrivassero centinaia di lettere di ultra 50enni amareggiati e disillusi e in seguito anche di tanti ragazzi che non credono più nel futuro e il cui unico scopo è quello di lasciare l’Italia». Da qui è partito il lungo viaggio, che ha portato l’autore a intervistare personaggi come Benigni, Jovanotti, Franca valeri e Veronesi e tante persone comuni, fino ad arrivare a distruggere il luogo comune secondo cui «si stava meglio quando si stava peggio»: «Siamo sicuri che negli anni ‘70 si vivesse meglio di oggi? La disoccupazione era devastante, l’inflazione galoppava, c’erano le domeniche dell’austerity, c’era il terrorismo. Eppure il Paese è uscito da quella crisi, ben più profonda di quella attuale». Per non parlare del periodo post-bellico, o, senza andare troppo lontani, agli anni ‘60, quando «solo un terzo delle famiglie potevamo mangiare regolarmente carne e solo 4 su 10 avevano il bagno in casa». «Oggi viviamo nella migliore condizione che la storia ci abbia dato, eppure siamo molto più pessimisti rispetto a 30 o 40 anni fa. Perché? Il fatto è che per la prima volta i genitori non hanno più la certezza, e nemmeno la sensazione, che i loro figli vivranno meglio di loro. Tutto ciò ci fa vivere peggio le difficoltà del presente. Abbiamo smesso di scommettere sul futuro e di sognare». E diventa quindi sempre più necessario ritrovare quella fame atavica che, in passato, aveva permesso a tanti italiani di uscire dal pantano: «Ci siamo dimenticato di essere un popolo di talento. Ai nostri figli e ai nostri nipoti bisogna restituire la fame, la voglia di rischiare e di mettersi in gioco».
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