Nella mostra senza “stelle” di Alberto Barbera, del cinema che deve superare il gossip e il richiamo abbagliante dei “personaggi”, la prima vera star è uno sconosciuto. È Martin Kazinski, «Martin chi?»: il bellissimo e attonito protagonista (interpretato dal bravo Kad Merad) di Superstar del francese Xavier Giannoli, terzo film del Concorso di Venezia 69. Kazinski è “banale” signor nessuno, è «l’uomo che non voleva diventare famoso» sbattuto kafkianamente sulle prime pagine dei giornali e rilanciato all’infinito in quelle digitali di siti, canali tv, social network che se ne impossessano, trasformandolo (senza ragione apparente) in un idolo di questa nuova società che ha simboli e Dei riprodotti in immaginette da smartphone e in “sedicinoni”. Tutto accade una mattina qualunque: Martin sta andando al suo lavoro, in una cooperativa che aiuta l’inserimento professionale dei disabili, quando sulla metropolitana iniziano a fotografarlo e filmarlo con i telefonini, chiedendogli anche l’autografo come se fosse un personaggio famoso, tra il suo stupore. In un paio d’ore la sua immagine è la più “cliccata” della Rete, e il suo faccione in serata è già nei servizi dei Tg che rimandano la notizia, alimentando a dismisura questo vortice di celebrità e di mistero: nei titoli è già “il caso Martin”, famoso e riconosciuto per strada senza sapere perché. Di più, Martin è già anche portatore di un messaggio, un enorme punto interrogativo che accompagna lo stupore della sua improvvisa e oscura notorietà. Travolto e stravolto dalla cosa Martin Kazinski cercherà rifugio nel posto sbagliato, ma in quello più “naturale”, tra le braccia di un programma tv della sera che per chiarire il mistero della sua fama non farà altro che amplificarlo all’istante, in diretta nazionale.
È una riflessione sul meccanismo della notorietà e sulla perversa potenza dei media, vecchi e nuovi, Superstar: un film che torna sui fantomatici “15 minuti di notorietà” di Warhol per rileggere e attualizzare il concetto, alla luce delle moderne tecnologie. Che possono trasformare quello che era un desiderio in un incubo o anche “inventarselo” di sana pianta, semplicemente spostando l’obiettivo da una parte, scegliendo un’inquadratura a casaccio prima di trasmetterla all’infinito, secondo un meccanismo che si autoalimenta e che ormai è sotto gli occhi di tutti noi. Non inventa granché Giannoli, ma semplicemente costruisce una storia su un fenomeno noto: perché la gente fotografa e insegue e intervista Martin Kazinski? Per lo stesso meccanismo che spinge alla notorietà un concorrente di un reality o fa fare la coda a macabri “turisti” sul luogo di un disastro. Il web poi, in nome della sua nuova democrazia (tutta da verificare) è libero di rilanciare senza regole, trasformando chiunque, anche un Kazinski qualsiasi, in un oggetto del desiderio o del disprezzo. I media infatti “succhiano fino all’osso e poi sputano via” anche Martin, quando il circolo invertirà il senso di rotazione, sarà respinto e presto dimenticato, quando la sua fama sarà sostituita da un disprezzo altrettanto immotivato e poi dall’oblio seguente, quando la sua foto non porterà più nuovi click o telespettatori.
Il regista parigino racconta in maniera lineare, senza azzardare teorie improbabili, filmando con un stile che mischia web, televisione e letteratura per restituire forte lo spaesamento di Martin e mettere a nudo le ipocrisie dei media e le ingenuità degli spettatori. Che a tratti sembrano applaudire e ridere di se stessi, quando consapevoli o no fotografato, “taggano” o “twittano” sul faccione di Martin. Prima paladino della banalità, poi addirittura promotore di un “movimento dell’urlo”, pronto per quasi per un salto in politica, prima di tornare finalmente uno sconosciuto, qundo si spegneranno i riflettori e si cambierà canale.
Lucio D’Auria
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