Un solo passo ancora, è tutto quello che devi fare. Una gamba davanti all’altra, il gesto più naturale, per andare incontro al destino. Per il marine Mike Stevens però il prossimo passo non è così semplice da fare, equivale a vivere o morire, saltare in aria o raggiungere la meta. Ma non è sempre così in fondo?
Si intitola Mine il lungometraggio d’esordio di Fabio Guaglione e Fabio Resinaro (sullo schermo semplicemente con la firma Fabio & Fabio, coppia artistica sin dai tempi in cui frequentavano nel 1995 il liceo scientifico a San Donato), un progetto coraggioso - per come rifiuta i percorsi abituali del nostro cinema - e per nulla scontato per due esordienti italiani che sin dal primo film sembrano voler rifiutare qualsiasi etichetta. Un solo uomo in scena per quasi tutta la durata del film, uno spazio unico in cui tutto si svolge e una storia che invece, a dispetto di tutto ciò, prende mille direzioni diverse, si modifica di continuo, toccando corde e generi diversissimi. Non è un film di guerra Mine, decisamente no, o non è solo quello: certo il protagonista è un soldato (un tiratore scelto che ha appena disubbidito a un ordine, e qui c’è il primo punto di rottura con le regole…) che resta immobilizzato nel deserto quando si accorge di aver posato il piede su una mina che al minimo movimento potrebbe esplodere. Certo ci sono i fucili e le divise, ma presto appare evidente che i nemici sono nascosti altrove, dentro la testa, nel passato, sono ombre nel buio da combattere e scacciare. Per poter finalmente fare quel passo in avanti.
Claustrofobico pur essendo ambientato in uno spazio aperto di cui non si vede la fine, capace di creare una tensione rara mettendo in gioco pochissimi elementi, Mine è davvero un film singolare, impossibile da racchiudere in un solo genere (anche se di cinema di genere si tratta). E anche la firma del produttore Peter Safran (lo stesso di Buried) può trarre in inganno e invitare a un facile paragone. Virile e filosofico, adrenalinico poi improvvisamente ironico, fa pensare a tanti film e a nessuno. Vengono in mente in ordine sparso No man’s land, la Bigelow, Gravity e 127 ore, ma a nessuno di questi somiglia veramente. Forse Mine è un thriller psicologico, ambientato al fronte, con un marine americano come protagonista (a proposito notevole la prova fornita da Armie Hammer, già diretto da David Fincher in The Social Network). Parte come un classico war movie ma è evidente da subito che ciò che interessa ai due Fabio è altro. Sin da quando lascia soli i due protagonisti che poi diventano uno (non si rivela nulla più di quanto si vede sul manifesto stesso del film): la storia da qui in avanti è un’altra e la guerra, il deserto, l’immobilità del protagonista sono metafore che suggeriscono altro, infinite altre storie. Mike si aggrappa all’ultima fiammella di speranza per rimanere in vita, alla forza di volontà che gli dovrà far superare le oltre 50 ore che mancano all’arrivo dei soccorsi. Combatte contro gli incubi del passato, si attacca con tutte le forze a ciò che gli è rimasto, ma via via appare evidente che ogni giorno della sua vita ha fatto quel passo in avanti, come chiunque altro, senza pensarci troppo su, ignorando le conseguenze del gesto, e che ogni luogo poteva essere quel campo minato che tutti quanti attraversiamo senza fare attenzione. Mike pensa di avere il 7 per cento di possibilità di sopravvivenza, ma il 7 per cento visto da un’altra prospettiva può essere tanto; Mike che camminava dritto facendo attenzione a dove mettere i piedi, quando magari andare a zig zag nel deserto, rompere le regole sarebbe stata la scelta giusta. La scelta che ci rende liberi e ci fa finalmente fare quel passo in avanti.
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