Scriveva Giovanni Arpino: «A Giacinto Facchetti molti hanno voluto bene, ma da lontano. Di veri amici, dato il suo riserbo, la sua umana ritrosia, la sua compostezza ideale, ne ha pochissimi. Credo che possa contarli sulle dita di una mano, sempre riferendoci al Pianeta Pallonaro. Per decine di volte, rispondendo a intervistatori seri o banali, mi sono sentito in dovere di ripetere: vorrei che ogni famiglia italiana avesse un figlio come Giacinto, saremmo un Paese diverso e senza il novanta per cento dei nostri guai, che derivano da una collettività inferocita e divisa, disonesta e ignorante». Perché Facchetti, prima ancora che campione, capitano e bandiera, era soprattutto una persona perbene. Un uomo mai sopra le righe, parco di parole ma prodigo di gesti esemplari, gli stessi che ne hanno fatto il simbolo trasversale di un calcio che non c’è più e che rappresentano il file rouge dell’emozionante racconto del figlio Gianfelice, autore di Se no che gente saremmo (Longanesi), l’opera che questa sera (ore 21, Sala Carlo Rivolta del teatro alle Vigne in via Cavour) segnerà il debutto di “Conversazioni d’autore”, il ciclo di incontri promosso dal Comune di Lodi. «La storia di un figlio, che cerca il padre, che cerca il figlio»: così Facchetti jr, drammaturgo, regista e attore, descrive il suo libro d’esordio, uno scrigno di ricordi e sentimenti che vanno a comporre il toccante ritratto di un padre e di un campione, patrimonio non solo dell’Inter ma di tutto il calcio mondiale. «Negli ultimi anni avevo raccolto tante tesitominanze, fotografie e cimeli su mio padre - racconta Gianfelice Facchetti -. Temevo che tanto materiale potesse scivolare via, e allora ho voluto mettere ordine per poterlo restituire a tutte quelle persone che ci hanno accompagnato nel nostro cammino». Il titolo del libro rappresenta la sintesi perfetta dell’onestà intellettuale di Giacinto: «È la frase che mio padre dice a mia madre nel finale di Azzurro tenebra, il romanzo di Giovanni Arpino, mio padrino di battesimo. In occasione della cerimonia, Arpino si presentò come “semplice” invitato: pare ci fosse stato un fraintendimento sul suo ruolo. Allora mia madre rimproverò mio padre, dicendogli che non si era spiegato bene, al che lui le rispose che quando si dice una cosa è quella, «se no che gente saremmo». Mi sembra la frase che al meglio rispecchi i valori di mio padre, una sorta di esame di coscienza da praticare quotidianamente». E grazie alla sua integrità morale e alla sua umanità, Facchetti è riuscito a unire i campanilismi del tifo, diventando simbolo di un calcio in cui l’etica dominava sull’apparenza e sui soldi. «Se qualcuno diventa un simbolo trasversale e per diverse generazioni significa che è qualcuno a cui vorremmo affidare una parte di noi», spiega Gianfelice, che dopo diversi testi teatrali e la collaborazione con il Corriere della Sera si è cimentato per la prima volta in un racconto così intimo: «Tutte le cose che racconto nel libro si riferiscono ad avvenimenti molto precisi, le ho vissute in prima persona. In questo caso non c’è il filtro della maschera teatrale». Parole sincere, nate dal cuore, anche quando si tratta di difendere la memoria di un padre scomparso che negli ultimi mesi qualche sciacallo ha voluto oltraggiare dopo la requisitoria di Stefano Palazzi su Calciopoli. Come avrebbe reagito Giacinto alle accuse? «Come abbiamo fatto noi, con distacco: entrare nel battibecco quotidiano è improduttivo. Un processo segue un iter ben preciso, ma in questo caso, per ovvi motivi, non ci potrà mai essere. Perché si è arrivati a tanto, in parte riesco a spiegarmelo, in parte mi rifiuto di farlo. Nel 2006 è crollato un forte sistema di potere, e quando si va a rompere le scatole, se si ha a che fare con pescecani, ci si può aspettare qualsiasi tipo di risposta. Ciò che è accaduto negli ultimi mesi ha superato ogni tipo di decenza».
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