Nostalgia di Fellini. Ma anche di Marcello Marchesi, del «Marc’Aurelio», del Teatro 5 e della dolce vita. Nostalgia di un’Italia perduta, lontana, ridotta a fondale per una vecchia scenografia. Che strano chiamarsi Federico è il ritratto di un amico, di un maestro anche, il commosso omaggio rivolto da Ettore Scola a Fellini, quello dei 5 premi Oscar e quello compagno di infiniti viaggi notturni compiuti a bordo di un’auto, attraversando Roma in cerca di storie e di ispirazione. Un affresco che mette al centro dello schermo la figura di Federico Fellini, che subito diventa però il simbolo di un’epoca intera guardata da Scola (e dallo spettatore) con infinita nostalgia. Alternando il girato con gli attori al materiale di repertorio, seguendo il filo del racconto di un narratore in scena, mischiando quindi la fiction al documentario, il film riesce nella difficile doppia impresa di ricostruire la vita del maestro riminese e quella di una generazione di scrittori-sceneggiatori-registi, di straordinario valore e mai abbastanza rimpianta. Certo Scola “cade in piedi”, nel senso che mette le mani nel migliore periodo mai vissuto dal nostro Paese in termini di creatività: mai più il cinema (ma a questo punto la cultura in generale) ha avuto tanti talenti tutti insieme, una specie di “squadra dei sogni” che in partenza alloggiava nella redazione del giornale satirico «Marc’Aurelio» e che da lì ha mosso i primi passi per conquistare Cinecittà, Roma e, addirittura, Hollywood. Proprio questa parte del film di Scola è la più divertente e toccante: si rivedono attorno a un tavolo Maccari, Steno, Metz, Attalo, Marcello Marchesi, Giovanni Mosca, con il giovanissimo Fellini che qui arrivò a 19 anni da Rimini. E sempre in quelle stanze ci fu il primo incontro tra Fellini e Scola, quando toccò a quest’ultimo (appena sedicenne) l’ingresso nella squadra.
Il film procede raccontando le amicizie comuni con Alberto Sordi e Marcello Mastroianni, mostrando i set nel mitico Teatro 5 di Cinecittà e le passeggiate notturne in auto a curare l’insonnia e raccogliere idee che poi finiranno nei film. E ancora nel montaggio finiscono autentiche perle come i provini di Alberto Sordi, Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman per Casanova. E Anna Magnani e lo stesso inedito Federico Fellini nel ruolo di San Giuseppe nel film L’amore.
Ma non c’è solo nostalgia nelle immagini Di Scola, non ci sono lacrime o una banale retorica che rimpiange il passato in quanto tale, si può altresì pensare a questo come a un omaggio o a un risarcimento in termini di memoria per un gruppo di intellettuali che davvero ha segnato un’epoca importante della nostra storia. E le scelte del regista, nella selezione dei volti o in quella degli episodi da raccontare, sono un importante valore aggiunto. Un contributo indispensabile per restituire verità al racconto e respiro a un universo che altrimenti arriverebbe a noi solo “di riflesso”. Bellissima è ad esempio la sequenza della “fuga” all’interno di Cinecittà, con la sagoma del regista che attraversa scenografie e reperti accatastati, e contemporaneamente svela la grandezza del nostro cinema di quegli anni. Una grande giostra su cui Scola rimette Fellini come se fosse l’unica cosa naturale da fare, per far continuare il “gioco” e per restituire la memoria di quello che alla fine è stato «un grande Pinocchio che, per fortuna, non è mai diventato un bambino perbene».
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