Scoprire il Papa venuto «dall’altra parte del mondo». Il Pontefice preso tra gli ultimi e i poveri della terra che ha scelto di chiamarsi Francesco, come il poverello di Assisi.
Sono state proprio quelle prime parole pronunciate su piazza San Pietro, subito dopo l’elezione, a far nascere l’idea di questo film e a dargli il titolo: in quell’istante deve esser nato (in Lucchetti e Valsecchi, rispettivamente regista e produttore) il desiderio di realizzare Chiamatemi Francesco, un’opera che raccontasse chi è quest’uomo straordinario e “rivoluzionario” capace di stabilire quel contatto immediato e personalissimo con la gente che sarebbe diventato poi la norma in questi anni di pontificato. Un film che indagasse, con il piglio dell’inchiesta, negli anni della gioventù e nel passato di Bergoglio, per avvicinarlo ancora più a chi sta “da quest’altra parte del mondo” e mostrare chi era Jorge Bergoglio prima del 13 marzo 2013.
Cercando di allontanarsi dal biopic televisivo (con un lavoro “sul campo”, nella sceneggiatura e con attori argentini, cileni e spagnoli), consapevole del pericolo di realizzare un “santino” solo celebrativo, Chiamatemi Francesco si concentra in particolare sul periodo della dittatura di Videla, durante il quale Bergoglio è nominato Padre Provinciale dei Gesuiti per l’Argentina, per poi passare all’esperienza fatta da vescovo con i poveri del Barrio 31 di Buenos Aires. Il film lo mostra giovane e peronista, e poi ventenne con il sogno di andare a fare il missionario in Giappone, e ancora tra gli amici (tra gli altri la professoressa di chimica Esther Ballestrino) e gesuita impegnato a contrastare la dittatura militare. Racconta soprattutto l’impegno di Bergoglio dalla parte degli ultimi e attraverso questo lavoro di scavo diventa più semplice dare oggi un significato alle prime parole pronunciate da Papa e a quella croce di ferro notata dai più attenti già sul balcone di San Pietro.
Lucchetti procede in maniera forse un po’ didascalica, preoccupato com’è dalla grandezza del personaggio, e a risentirne sono l’emozione che in alcuni momenti cala e le sfumature; il suo racconto però è attento e rispettoso, stilisticamente semplice proprio come lo è Francesco. Certo la difficoltà maggiore sta proprio nel confrontarsi con un Papa che ha fatto della comunicazione diretta con la gente la sua forza maggiore: difficile non essere “superati” da Bergoglio stesso, da ciò che si vede tutti i giorni in tv, ma quello che si ascolta nelle prediche, prende più significato dopo aver scoperto le radici della sua storia.
Lucchetti deve dimostrare con la sostanza di non voler inseguire l’attualità, di non voler cavalcare il personaggio. Mette quindi nel suo film la ricerca fatta “sul campo”, la documentazione, la ricostruzione storica di quegli anni. È aiutato in questo dal cast, dai protagonisti Rodrigo de la Serna (I diari della motocicletta) e Sergio Hernandez (No - I giorni dell’arcobaleno), mentre per la descrizione del periodo della dittatura dei militari il riferimento sembra essere Garage Olimpo di Marco Bechis. Il film vuole mostrare l’uomo “di ieri” per capire chi è il Papa “di oggi” e il regista ha spiegato di aver trovato una chiave di interpretazione quando – tra le interviste fatte – ha incontrato che gli descriveva Bergoglio «come un uomo preoccupato»: per questo probabilmente, è la riflessione finale, oggi sembra “non aver paura di nulla”. E questo, insiema alla sua vicinanza con glim ultimi, emerge dal ritratto del Papa «venuto dall’altra parte del mondo» che all’anteprima di questo stesso film ha voluto invitare alla proiezione in Vaticano settemila persone, tra poveri, profughi e senzatetto.
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