La terra, la famiglia, legami che vanno oltre il tempo e ai tentativi di cambiamento. È una storia di sottomissione quella di Anime nere, una vicenda che affonda le radici nel profondo della terra: radici che legano i fratelli e le madri, i padri che perdono i propri figli. Rapporti che non si possono sciogliere, se non andando fino in fondo, alle più estreme conseguenze delle decisioni.
Luigi, Rocco e il maggiore, Luciano, sono i fratelli e questo avrebbe potuto essere forse il titolo del film: fratelli, un legame indissolubile che tiene insieme i protagonisti nel bene e nel male, un cordone sotterraneo che percorre l’intera storia: c’è il fratello imprenditore rispettabile, che lavora organizzando cantieri al Nord, ha la famiglia con una bella casa e una moglie che non capisce e protesta quando si parla in dialetto, e c’è il più piccolo che invece fa il “compito sporco” trafficando droga dal Messico e da Amsterdam portando alla fine i soldi per tutti. Anche per il più grande che vorrebbe affrancarsi dalla mentalità mafiosa di quella terra dove è rimasto a vivere, provando a lavorare onestamente. Ma quei legacci invisibili tengono fermo anche lui, soprattutto lui che a sua volta ha un figlio che diventa grande e già inizia a seguire la strada dello zio, fatta di sopraffazione, sfida, richiesta di rispetto. Il viaggio a ritroso, dal Nord al Sud, da una nuova generazione a quella antica, che è viva nonostante venga tenuta nascosta, è il cuore di questo film che ha una sceneggiatura solida, poggiata sul romanzo omonimo scritto da Gioacchino Criaco. Un’opera che ha molte virtù: una fra tutte quella di sfuggire ai clichet, quando maneggia con cura luoghi e “figure” della Calabria di Africo. Francesco Munzi, dopo il suo bel film d’esordio (Samir) si è conquistato lo spazio per una seconda opera e ha scelto di andare contro la corrente (dominante) di una commedia fintamente legata alla tradizione. E lo ha fatto con un film solido, duro, che non fa sconti e non scivola mai nel banale. Un’opera che affronta un argomento difficile (e già messo in cinema da molti altri colleghi) con una personalità di stile e di racconto che fanno la differenza. Con scelte di montaggio, di un ritmo che non sia convenzionale, con soluzioni narrative che distinguano dalle altre questa storia che vuole andare alle origini, all’archetipo.
Non c’è spettacolarizzazione e c’è invece sempre una recitazione sommessa, così come per sottrazione sembra voler lavorare il regista nei movimenti, nelle inquadrature. La sfida è allontanarsi dal “genere”, dai tanti prodotti già visti sul tema, che Munzi non vuole emulare, forte soprattutto del romanzo che ha alle spalle. Fondamentale per il risultato finale è stata la decisione di girare ad Africo, per accorciare la distanza con i personaggi e per stringere una volta di più un legame indissolubile con i luoghi, dove la tragedia può compiersi secondo le proprie regole.
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