Domenica 15 aprile, poco prima delle 13.30: di fronte al portone dell’ex chiesa dell’Angelo è difficile incrociare uno sguardo che non sia lucido di commozione. Piangono tutti, uomini e donne, mentre il cielo versa lacrime di pioggia. È un pianto collettivo di orrore e tenerezza, rabbia ed empatia, il distillato in acqua salina delle stesse emozioni che affiorano dagli scatti della fotografa californiana Darcy Padilla, fra gli ospiti più attesi della terza edizione del Festival della fotografia etica. In mostra: The Julie project, la storia di Julie, il diario visuale degli ultimi diciotto anni di vita di questa giovane donna americana. Un’infanzia di abusi, un padre smarrito, uomini, droga, quattro figli e un virus, quello dell’Aids, che la farà morire a nemmeno quarant’anni. Dal quel giorno di gennaio del 1993, quando la vide per la prima volta nell’atrio di una casa popolare di San Francisco, Julie è stata una presenza costante nella vita di Darcy Padilla, il soggetto abituale della sua fotografia. Ma lo sguardo di questa grande fotografa americana, vincitrice di due World press photo award nel 2011 e nel 2012, non è quello del sociologo a caccia di casi umani o del reporter in cerca di emozioni forti, è piuttosto lo sguardo sollecito dell’amica, immersa con tutta se stessa nella storia che sta raccontando. E il risultato di questa «osservazione partecipata» sono i magnifici scatti che hanno fatto commuovere le tantissime persone presenti all’inaugurazione di domenica mattina, proseguita con una lunga visita guidata a cura della stessa autrice. «Ho conosciuto Julie quando aveva 19 anni; da pochi mesi aveva avuto Rachael, la sua prima bambina, ed era appena andata a vivere da sola: voleva smettere di drogarsi e così aveva deciso di lasciare Jack, il padre di Rachael, l’uomo che le aveva trasmesso l’Aids. In quel periodo Julie era molto depressa, a volte dava prova di essere una donna intelligente, dotata di un gran senso dell’umorismo, ma le condizioni di vita erano difficili». Sola, malata, sulla carta di credito tre dollari in croce, Julie cambia uomini e casa con la stessa velocità, quindici in un anno, ed è così che resta incinta di Tommy. «Ci sono stati momenti in cui ero sicura che la situazione stesse migliorando, e che presto avrei potuto dare un lieto finale alla storia. Non pensavo che sarei andata avanti a fotografarla per diciotto anni». E invece così è stato, e Darcy le è rimasta accanto fino alla fine: c’era nel 1997, quando nella vita di Julie entrò Paul, che riempì di botte il piccolo Tommy mentre lei era in ospedale per un aborto spontaneo; c’era quando Julie conobbe Jason e rimase di nuovo incinta, quando le tolserò la patria potestà, quando finì in prigione. Darcy c’è anche nei momenti belli, vicino al letto dove Jason e Julie dormono abbracciati, sotto i cieli magnifici dell’Alaska, quando Julie ritrovò suo padre, che non vedeva da 31 anni. Intanto la malattia progredisce rapidamente, e sul corpo smagrito della trentenne Julie compaiono i segni sempre più profondi delle polmoniti sempre più frequenti, dei ricoveri in ospedale, di una vecchiaia precoce che di lì a poco la porterà alla morte. Non prima però di aver dato alla luce la minuscola Elyssa, immortalata con le braccia protese appena uscita dal buio della vita uterina, al centro di una foto potentissima, dall’intensità quasi epica. The Julie project rimarrà in mostra fino al 25 aprile.
Silvia Canevara
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