«È una cosa grossa uccidere un uomo: gli levi tutto quello che ha. E tutto quello che sperava di avere…». Chris Kyle non è il cowboy “spietato” William Munny, che davanti alle macerie della Frontiera sapeva che «tutti ce lo meritiamo». Chris Kyle è quello che i compagni chiamano “Leggenda” e i nemici hanno ribattezzano “il diavolo di Ramadi”, il cecchino più letale della storia delle forze armate americane. L’eroe di quattro missioni in Iraq che scriverà in un’autobiografia la sua testimonianza senza apparenti incertezze. Apparenti…
Non si può cadere nell’equivoco, davanti a un film di Clint Eastwood: il regista de Gli spietati e del mito di Iwo Jima raccontato dalle due parti opposte della trincea sa cos’è l’orrore recitato da Kurtz, distingue e mette in crisi lo spettatore quando si devono tratteggiare i contorni di un eroe (che subito diventa “anti”). La sua sfida, accettando di dirigere American Sniper (progetto ereditato da Steven Spielberg che avrebbe dovuto esserne il regista, e prodotto da Bradley Cooper che letteralmente si trasforma nel protagonista) diventa se possibile ancora più complessa: raccontare quello che per gli americani non può essere altro che un simbolo, salutato al funerale da chilometri di semplici cittadini schierati ai bordi delle strade con le bandiere, un cecchino che al fronte ha sparato a donne e bambini ma sempre sapendo «da che parte sta il bene e dove il male». Figlio del profondo Texas, educato dal padre a distinguere subito che «il mondo è diviso in pecore, lupi e cani da pastore. I primi pensano che nel mondo non esista il male e quindi vengono attaccati, i secondi sono il male e attaccano per primi, i terzi sono nati per difendere le pecore dai lupi....quindi nati per difendere quel che amano». Arruolatosi nei Navy Seal dopo gli attentati alle ambasciate del 1998 e partito per l’Iraq con un’unica missione: sparare e proteggere i propri compagni e il proprio Paese.
Tra Cimino e Kathryn Bigelow, tra Il cacciatore e The hurt locker, secco come lo sparo di un fucile, “spietato” e più complesso di quanto appaia a una lettura superficiale, American sniper aggiunge un nuovo tassello alla cinematografia del grande regista, in grado una volta di più di spiazzare lo spettatore. Per una volta non c’è il desiderio di andare oltre il genere, come ampiamente dimostrato in passato: Eastwood ha in mano un progetto, un testo a cui rimane fedele senza deviare. Fa un passo “di lato” rispetto a William Munny, non raggiunge i livelli di quel capolavoro e segue l’incrollabile fede di Chris Kyle fino a quando anche dentro il mirino del suo fucile di precisione si rifletterà la follia della guerra. Resta invece immutata la capacità di non cadere mai nella trappola della retorica, nella banalità, pure quando il suo protagonista sembra perdere le sfumature. La macchina da presa stringe l’inquadratura e si concentra su di lui e anche quando pare celebrare la “leggenda” sfugge alla semplice agiografia, riuscendo ad andare più in profondità. Il cuore di tutto resta proprio dentro quel mirino, in quel respiro prima di tirare il grilletto e nel silenzio imparato da John Ford. Lì dentro si ritrovano il confronto tra uomini, la tragedia della guerra e gli sguardi che si incrociano, per istanti interminabili, sulle due parti opposte della trincea.
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