Il nuovo Holmes che vince la noia
«Non c’è nulla di più innaturale dell’ovvio». Guy Ritchie l’ha preso in parola il dettato di Sir Arthur (Conan Doyle): non fidarsi del banale, andare oltre l’apparenza, per stupire con il ragionamento o con un po’ di furbizia. Eccola servita questa “partita a scacchi” con lo spettatore dove al posto dei quadrati neri e bianchi c’è un ottovolante di emozioni su cui salire per lasciarsi trasportare. È una bella e lieta sorpresa la seconda puntata della saga dello Sherlock Holmes cinematografico, una rilettura divertente e spettacolare di un “classico” che mischia intelligenza e adrenalina in eguali misure e che consacra il detective Holmes come una delle “maschere” più riuscite fra quelle della recente produzione cinematografica. Ce n’è abbastanza, e oltre, per essere accusati di un delitto di lesa maestà nei confronti del nobile autore, ma se ne può escire armati di una robustissima dose di autoironia, la stessa che ha permesso all’ex “mister Madonna” di affrancarsi finalmente dal cono d’ombra dell’ingombrante ex consorte per affermarsi con questo film come autore dotato di una buona personalità.
Insomma qualche volta capita, e questa è una di quelle, di andare incontro a unaJude Law e Robert Downey jr.
sorpresa senza nemmeno essersela augurata. Sherlock Holmes - Gioco di ombre fa un po’ questo effetto, risultando più divertente, interessante e più originale del primo “episodio” che aveva rivelato al pubblico la struttura e i personaggi della “saga” che qui ritroviamo riproposti con la stessa dinamica. Ma dopo il successo un po’ fracassone del primo film, qui Guy Ritchie si è concesso il lusso di andare oltre, giocando “spielberghianamente” con i personaggi e con la straordinaria materia prima, ispirata da sir Arthur, approdando a un’avventura che è carica di spunti. Un po’ Indiana Jones, un po’ moderno eroe anticonvenzionale, Sherlock Holmes in questa versione cinematografica è un single impenitente e muscoloso che ha con Watson una «relazione atipica» che va ben oltre la collaborazione per la risoluzione dei casi. E se questi erano elementi già chiari nel precedente episodio qui i contorni si fanno ancora più netti: niente di rivluzionario, per carità, ma un po’ di politicamente scorretto che mette il sale alla vita e alla scrittura cinematografica. I casi da risolvere diventano quindi solo uno dei motivi per cui restare con gli occhi attenti sullo schermo, perché il divertimento e le sorprese si moltiplicano, da altre prospettive. Quella dell’ambientazione innanzitutto: un’Europa di fine Ottocento, tra Londra, Parigi e un castello arrampicato sulle montagne svizzere, tutto meravigliosamente ricostruito e fotografato, a fare da sfondo al complotto che Holmes e Watson cercano di sventare, per salvare il mondo dalla catastrofe bellica. Poi c’è la scelta degli attori chiamati a vestire i panni (ingombranti) di eroi letterari di questa portata: Robert Downey jr. e Jude Law non sono una coppia qualsiasi da blockbuster, bensì attori di spessore che già hanno dimostrato ampiamente il loro talento; a loro c’è poi si aggiunge in questo Gioco di ombre lo straordinario Stephen Fry, impareggiabile nel regalare alla figura del fratello di Sherlock, Mycrof, quei toni british e l’ironia che riportano al suo Wilde cinematografico. L’ironia appunto, forse la cifra migliore del film, che sostituisce la pipa e la lente d’ingrandimento dell’iconografia classica con i travestimenti folli, da pianta o da poltona, e con le “scorrette” abitudini del detective che rispetto all’originale resta ugualmente infallibile nell’intuito ma decisamente più simpatico.
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Sherlock Holmes - Gioco di ombre
regia Guy Ritchie, con Robert Downey jr., Jude Law, Noomi Rapace, Stephen Fry
PRIMA VISIONE - «Non c’è nulla di più innaturale dell’ovvio». Guy Ritchie l’ha preso in parola il dettato di Sir Arthur (Conan Doyle): non fidarsi del banale, andare oltre l’apparenza...