«Forse sono stato arruolato per una guerra più grande di me», disse un giorno Volodja a un amico. Perché si sentiva «in guerra», Volodja, l’uomo che solcò i cieli della gloria toccando vette mai raggiunte, per poi precipitare in un battito d’ali. Nella sport, come nella vita. Una meteora, perennemente in contromano, in un mondo che avrebbe potuto avere ai suoi piedi: ma che non gli apparteneva, e al quale non sarebbe mai davvero riuscito ad appartenere. Potrebbe bastare questo a giustificare una biografia su Vladimir Jascenko, l’asso ucraino (ma ai suoi tempi si sarebbe detto sovietico) che sul tramonto degli anni Settanta abbagliò il globo con le sue imprese nel salto in alto. Ma a spingere l’esordiente Giuseppe Ottomano, sandonatese d’adozione, a scrivere a quattro mani con Igor’ Timohin Il volo di Volodja, rapida parabola di questo “campione fragile”, c’è molto di più. Perché Volodja, come veniva chiamato Jascenko, è stato “molto di più”. Un primatista mondiale, certo, capace di conquistare le folle giovanissimo, con quello stile crepuscolare, il cosiddetto salto ventrale, che la rivoluzione del Fosbury aveva di fatto pre-pensionato da anni. Ma anche un ribelle “senza causa”, croce e delizia di un regime, quello comunista, che mal lo sopportò, ricambiato: ma che dovette comunque farne un simbolo, per sfruttarne la popolarità, salvo ingannarlo e consumarlo, mentre Volodja si ingannava e consumava a sua volta.«Un campione davvero unico, molto “letterario” - spiega Ottomano -. Io sono anche un appassionato della storia dell’Unione Sovietica, e la sua vicenda rimanda decisamente a quella dell’antieroe per antonomasia, di cui la letteratura russa è sempre stata ricca». Insomma, sì: ce n’era davvero abbastanza, per questo dirigente di una multinazionale con il pallino dell’atletica, dell’Urss e della scrittura, per provare il suo, di “grande salto”. «Era il 2008 e assieme ad amici avevamo un blog, poi diventato Sportvintage.it, nel quale facevamo ritratti di personaggi sportivi del passato. Più avanti avrei curato anche una rubrica storico-sportivo su un’altra rivista telematica, “Pianeta Sport”, e fu lì che mi imbattei in Jascenko. Nel 1978, quando fece il record a Milano, ero uno studente, e mi ero entusiasmato per le sue gesta seguendole alla tv. Mi domandai allora che fine avesse fatto, cominciai a fare delle ricerche, e ciò che trovai mi colpì profondamente. Così ho acquistato riviste, raccolto materiale all’emerotca Sormani: poi attraverso un gruppo di appassionati su Facebook ho conosciuto un tedesco che mi ha messo in contatto con Timohin, che su Jascenko aveva già scritto un libretto. Non è stato facile: Igor parlava solo russo e ucraino, e per un po’ mi ha aiutato il professor Alessandro Curletto. Poi abbiamo continuato da soli. Non è stata un’impresa facile, ma alla fine siamo riusciti a realizzare una biografia completa». Ad arricchirla, provvedono contributi illustri. C’è la prefazione del telecronista Rai Franco Bragagna, con quella magica notte milanese agli europei indoor del 1978, quando il 19enne ritoccò per l’ultima volta il suo primato mondiale, segnando un irreale 2.35; e c’è il ricordo di Carlo Vittori, l’artefice del miracolo-Mennea, secondo il quale, senza i rovesci della sorte, il fenomeno ucraino sarebbe potuto arrivare «a saltare fino a 2.50». Sarebbe potuto... Ma non ci arrivò. Si fermò molto prima, l’ultimo dei mohicani che amava i Beatles e che si addormentava durante le gare, l’uomo che «non salta, vola nell’aria come una colomba» (Vasilj Telegin) e che per batterlo «ci sarebbe voluto l’elicottero» (Rolf Beilschmit). La sua vita si consumò rapidamente, dentro e fuori i palasport, corrosa dagli infortuni e dall’alcolismo: «In questo, Volodja è stato anche un tipico “homo sovieticus”: l’abbandono al demone della vodka, durante un periodo difficile come quella della stagnazione brezneviana, è esemplare», riflette Ottomano. Nei burroni della vita, in fondo, Volodja si era abituato a guardare fin da piccolo, nella sua Naporoz’è. Ma mentre Ottomano, per il futuro, pensa ad altri eroi tragici e crepuscolari, come Luz Long («fu l’amico-rivale tedesco di Jesse Owens a Berlino 1936: morì nella Seconda guerra mondiale, in Sicilia, combattendo dalla parte sbagliata della barricata»), del suo Jascenko è bello ricordare anche la devozione per un pubblico che lo idolatrava, e verso il quale sentiva la responsabilità di regalare sempre qualcosa di speciale: fosse l’assalto a una misura mai raggiunta, o una sfida all’ultimo centimetro con quei rivali che per due anni batté regolarmente, a ogni latitudine. Per loro, i tifosi, «Jasca» c’era sempre: a costo di rimetterci la salute, prima di rimetterci la vita. Perché è stato un volo breve, ma senza compromessi, quello di Volodja.
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