È vero, esiste un filo nemmeno troppo sottile che unisce Django unchained a Bastardi senza gloria. Lasciando da parte il ghigno di Christoph Waltz, è nei temi, nelle storie che Tarantino dimostra d’essere andato in cerca di una linea di continuità tra i suoi due film. Il filo di una «antistoria» da raccontare per immagini e parole, secondo un codice del tutto personale. Per comporre un progetto che lo stesso regista ha ammesso potrebbe completarsi in forma di trilogia, non si sa bene quando o come. Intanto sugli schermi c’è questo western insolito e personalissimo, come tutti i film del regista di Pulp fiction, un omaggio ai tanto amati maestri di genere italiani, ma soprattutto un’opera a tratti dirompente, un messaggio antirazzista forte e irriverente come una pallonata tirata dalla stella di colore in faccia a una tribuna becera e ignorante che fischia.
Django (Jamie Foxx) è uno schiavo nero, liberato e assoldato da uno strano cacciatore di taglie di origini tedesche, il dottor King Schultz (Christoph Waltz), nell’America che vive gli anni precedenti allo scoppio della guerra civile. Insieme attraversano una fetta del Paese a caccia di ricercati con la promessa di andare, una volta compiuta la missione, a liberare Broomhilda (Kerry Washington) la donna dell’uomo rimasta in catene in una piantagione del Sud. La prima parte del film segue quindi l’addestramento dell’uomo, che permette anche al regista la costruzione dei caratteri dei diversi personaggi. Ed è questa anche la parte più legata al genere che Tarantino si diverte ad esplorare, innestandovi gli elementi della sua poetica personale. Nella seconda invece, quando la coppia si dirige verso la tenuta di Candyland lo scenario e anche il linguaggio cambiano ancora, trasformando Django unchained in un’opera più completa e personale.
Il cinema di Tarantino, qualche volta archiviato frettolosamente da taluni come “originale” e fuori dagli schemi, è in realtà un meccanismo raffinatissimo, i suoi film fatti da un’infinità di particolari e di scelte stilistiche complesse e tutte sempre legittime. I piani di lettura sono in ogni opera differenti, sistemati a diversi livelli, che sta allo spettatore andare a scovare. In Django unchained ad esempio l’omaggio dichiarato agli spaghetti western è solo il punto di partenza, lo spunto per un grazie esplicito ai maestri tanto amati, a Corbucci a cui ha “rubato” il personaggio, a Leone da cui prende in prestito addirittura una celeberrima battuta nel finale (oltre al compositore Morricone per costruire il tappeto sonoro che riproduca quell’atmosfera inconfondibile). Questa la partenza, poi inizia il cinema di Tarantino che si allunga verso altre vette, altre passioni, fino a Wagner e alla leggenda di Sigfrido e Brunilde, ad Alexandre Dumas e al romanzo storico e molto oltre. In realtà il regista celebra il genere tanto amato ma allo stesso tempo ne sancisce una nuova (l’ennesima) fine, realizzando un’opera assolutamente in debito con il teatro. E allo spettatore spetta dipanare la matassa per orientarsi e per arrivare con una propria lettura al finale.
Django unchianed, comunque, resta innanzitutto un potente apologo antirazzista, un crudo e contemporaneo ritratto di un mondo comandato da separazioni e disparità sociali, che Tarantino si diverte naturalmente a mettere in ridicolo (memorabile la spedizione degli “incappucciati” che litigano sui buchi per gli occhi troppo stretti…). Certo, arrivato a questo punto, il suo cinema corre il rischio di apparire “di maniera”, meno vitale rispetto agli esordi. Ma i dubbi vengono superati da una tecnica e da un passione cinefila che sono difficili da trovare altrove e che permettono all’autore di arrivare a soluzioni irraggiungibili per la stragrande maggioranza dei colleghi.
PRIMA VISIONE - È vero, esiste un filo nemmeno troppo sottile che unisce Django unchained a Bastardi senza gloria. Lasciando da parte il ghigno di Christoph Waltz, è nei temi, nelle storie che Tarantino dimostra d’essere andato in cerca di una linea di continuità tra i suoi due film.
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