Inventare un nuovo alfabeto per raccontare l’olocausto
“Lezioni di persiano” presentato allo scorso Festival di Berlino
Serve un nuovo alfabeto per raccontare l’orrore dei campi di concentramento nazisti? È un film semplice e potente Lezioni di persiano che sta tutto quanto dentro un’idea. Un’idea folle per salvarsi dalla follia, si potrebbe sintetizzare. E che come tutte le cose che in apparenza sembrano quasi elementari in realtà nascondono profondità in cui immergersi.
Gilles è un ebreo belga che cerca di scampare alla deportazione fingendosi persiano. Al campo c’è un ufficiale che vuole imparare la lingua farsi e che lo prende sotto la sua ala in cambio di lezioni private. In realtà Gilles - che d’ora in avanti sarà quindi Reza - non è persiano e quello che spaccia all’ufficiale nazista non è farsi.
Lezioni di persiano sta tutto qui, semplice in apparenza. Potente in realtà: una metafora sulla forza salvifica del ricordo e della parola, sulla necessità di non cedere nulla sulla memoria dello sterminio nazista. Reza inventa una lingua, inganna gli altri (carnefici e vittime) ma allo stesso tempo fissa i nomi, ricorda i visi, restituisce brandelli di una storia terribile prima che diventi cenere.
Il suo trucco (anche se il regista avverte che il film è ispirato a fatti realmente accaduti) è anche più potente dei vuoti che il film inevitabilmente lascia. Ma non va cercata la verosimiglianza in questo campo di concentramento che - nella Francia occupata - sembra fuori dal tempo, circondato dalla palude e dalle mine e che diventa a sua volta simbolico. Il discorso sul linguaggio, sulla parola, sul ricordo travolge e scavalca ogni altra richiesta di interpretazione.
Il nuovo alfabeto serve a salvare Reza ma prima ancora serve a dare le parole giuste al regista per raccontare l’orrore. Consente una narrazione che a tratti sfiora la commedia, mantiene la tensione di un thriller, ma contemporaneamente non risparmia nulla allo spettatore della drammaticità dell’Olocausto. Senza il rigore stilistico de Il figlio di Saul, o lo sguardo trasognato di Benigni, Lezioni di persiano” sta dentro quel trucco inventato dal protagonista per avere salva la vita: il caso, l’identità, l’annullamento, la colpa, la necessità di ricordare. L’invenzione di un linguaggio per raccontare una storia: come fa Reza nel campo quando sembra impossibile sopravvivere; e come fa la sceneggiatura quando le parole per descrivere l’orrore sembrano essere già state utilizzate tutte.
Semplice, non banale: in un tempo - come il nostro - in cui il concetto di eroismo è spesso abusato o mal utilizzato, questo film arriva a scombinare ulteriormente la prospettiva. Non ci si salva con coraggio ma addirittura con l’inganno, se non grazie al caso, per un libro scambiato con un panino. A vincere è l’egoismo e la rivalutazione della storia passa attraverso la figura di un antieroe assoluto, che si riabilita quasi in maniera inconsapevole.
Vadim Perelman dirige in maniera essenziale, con una semplicità che non concede nulla in più del gioco/confronto tra i due protagonisti - Nahuel Pérez Biscayart e Lars Eideinger - consapevole che la forza del film sta già tutta quanta in quell’idea, contenuta nel romanzo (di Wolfgang Kohlhaase) da cui è tratto. In quella lingua inventata, nelle parole scritte, ricordate, a cui aggrapparsi per non perdersi.n
Lezioni di persiano
Regia Vadim Perelman
Sky
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