Ken Loach racconta gli ultimi della fila

Daniel Blake aggiusta le cose con le mani, le costruisce, le ripara, lavora il legno mentre ascolta il bollettino dei naviganti. E la tempesta che è in arrivo, che anzi è già arrivata, non sta in mezzo al mare, ma è fuori dalla porta della sua casa popolare di Newcastle.

Come molti altri ha perso il lavoro da manovale, fermato da un attacco cardiaco, quando ormai è troppo tardi per tutto, per trovarne un altro e per imparare anche a cercarlo sul web e ora si deve scontrare con una burocrazia kafkiana per poter avere il sussidio di malattia che gli permetta di sopravvivere. Insomma è finito in fondo alla fila, cacciato dal centro, costretto a una ricerca umiliante che vuole fiaccare la sua resistenza. Rimbalzato da istituzioni che seguono regole che sembrano ignorare non solo l’aspetto umano ma anche la semplice logica resiste perché sa che «sei finito solo quando perdi il rispetto per te stesso».

L’universo di Ken Loach è fatto dal manovale Daniel Blake, da Joe l’allenatore, dai ferrovieri Paul e Mick, dalla madre di Ladybird Ladybird, si trova in periferia dove non ci sono luci abbaglianti, ma magari c’è un po’ di quella mutua assistenza che le istituzioni ormai si dimenticano di dare. Il suo cinema è dedicato agli ultimi, canta la loro strenua resistenza, la lotta impari contro un sistema che uccide umiliando e cancellando la dignità. Lo stesso cinema civile che continua a praticare da anni, attingendo da una realtà che purtroppo, in Gran Bretagna come altrove, non fa mancare storie o esempi da raccontare

Secco, senza orpelli o giri di parole, drammaticamente vero e pure grottesco quando mette sotto accusa i funzionari ottusi, Io, Daniel Blake riconduce tutto all’essenziale, attraverso la consueta regia all’apparenza semplice che però non dimentica nulla e rispetta le distanze per non apparire retorica. Ma allo stesso tempo ribadisce con forza pochi e semplici concetti che stanno a cuore al regista come ad esempio che non tutto può essere comprato con il denaro, che gli uomini non sono un prodotto, né tantomeno un numero in un registro dell’ufficio di collocamento. E che certe regole, certi governi, hanno disintegrato prima un sistema economico e poi lo stato sociale che sarebbe dovuto venire in soccorso.

Ken Loach fa da anni lo stesso film, questa è “l’accusa” (se così si può dire) che viene rivolta al suo cinema. Ma il suo è cinema necessario, attuale, senza infingimenti: «di cos’altro dovrei parlare? cosa c’è di più attuale della tragedia di chi perde il lavoro, di quanti non hanno più speranza?» sembra dire il regista britannico in ogni inquadratura, in ogni singolo dialogo. Daniel Blake insomma non è molto diverso da altri personaggi già raccontati dal regista e questo film non è di sicuro il suo migliore. Daniel Blake si inserisce nella (lunga) galleria di “ultimi” raccontati da Ken Loach ma è di sicuro tra i volti che ricorderemo. Per quello che dice e per come lo dice.

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