«Racconto una maternità non convenzionale, una donna che vive questo evento in una maniera diversa dal comune sentire». Ha scelto un tema complesso Cristina Comencini per il suo ritorno (in concorso) alla Mostra del cinema di Venezia: “Quando la notte” tratto dal suo romanzo omonimo (ed. Feltrinelli) parla di madri e di figli, ma anche di padri, di abbandoni, di solitudini e rapporti traumatici, anche quando dovrebbero essere “naturalmente” felici e sereni. «Marina, la madre del mio film, vive la maternità in maniera difficile, non si sente all’altezza, ha persino un rifiuto del figlio. Si scontra insomma con quel sentimento che le donne conoscono bene e di cui pochissimo si parla, al cinema o nei libri».
La regista, seduta tra i suoi due protagonisti Claudia Pandolfi e Filippo Timi Claudia Pandolfi al termine della conferenza stampa
«Credo che si parli di maternità sempre in maniera troppo semplicistica - dice la Comencini -. Con il mio film volevo scavare e andare più in profondità, raccontare un aspetto meno discusso, come quello del “rifiuto” di una madre e delle difficoltà che ogni donna deve affrontare quando si trova a vivere un evento così complesso. Racconto una cosa che non si dice spesso: che si impara ad essere madri e che non è mai semplice».
La maternità di Marina, così combattuta, non è certo rassicurante, ma secondo la regista non è così insolita. «Di noi donne si dice sempre che abbiamo l’istinto materno, che sappiamo naturalmente essere madri. Ma questo non significa nulla: si deve imparare ad essere madre. Io credo che ogni donna capisca quello che io cerco di dire con questo film: esiste una doppia valenza nel legame tra madre e figlio, senza negare il concetto di amore materno. Però il rifiuto, la difficoltà a trovarsi davanti a un evento così straordinario sono cose reali. E’ una delle esperienze più grandi che esistano e che accomuna noi donne, ma è allo stesso modo ambivalente. E io questo volevo raccontare».
Nel film esistono però anche figure maschili, che servono a dire altre cose ancora… «Non è solo un film sulla maternità, è vero - spiega la regista -. Le figure maschili non sono secondarie e io volevo affermare il loro ruolo centrale all’interno di questo argomento. L’uomo non è secondario, ma dovrebbe anzi riconquistare una posizione cardine: non tanto in funzione di “assistenza” della madre, di accudimento dei figli, ma come sostegno principale e indispensabile alla figura della madre».
È difficile, vedendo un racconto che contiene anche momenti altamente drammatici, non ritrovare elementi riconducibili alla realtà e a fatti di cronaca (come quello, tristissimo, di Cogne). «Me ne sono accorta dopo aver scritto il film, quando mi hanno fatto questa stessa domanda - dice la Comencini -. Forse può esserci un collegamento a livello di inconscio, ma io volevo davvero raccontare una storia che partisse dai piccoli gesti quotidiani che tutte le madri conoscono. La difficoltà di stare per due giorni con un bimbo di due anni da soli chiusi in casa con la pioggia e il padre lontano, con la paura che si faccia male appena ci si distrae per andare in bagno o l’impossibilità anche di parlare. Parto da esperienza normali, qualsiasi, gesti comuni a tutte le donne, che ne nascondono però di straordinarie: piccoli eroismi quotidiani che le mamme conoscono e di cui credo sia giusto parlare».
Il film, alla prima proiezione a Venezia, è stato accolto in maniera poco favorevole: addirittura delle risate (assecondando un’abitudine insana e tutta italiana di commentare in sala le proiezioni) hanno accompagnato i momenti più drammatici… «Il film parla di emozioni – dice la regista senza sottrarsi alla questione -. Il problema che alcune battute del testo sono emozionanti, e non sempre ai festival l’emozione è accettata. Le situazioni emotive, specie su temi del genere, sono complesse. Ci vuole coraggio, ad avere emozione».
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