Il cinema francese dimostra d’avere idee e di essere in buona salute. Non da adesso, non solo per gli Oscar a “The Artist”. Pur conservando le sue caratteristiche (per qualcuno i suoi difetti) mostra spesso una rara vicinanza ai temi d’attualità, una capacità di trattare argomenti che evidentemente sono vicini alla società e al pensare “comune” al di là delle Alpi. Sono molti gli autori che si sono affermati al cinema negli ultimi anni affrontando con i loro film argomenti difficili, questioni complesse: l’immigrazione, gli scontri sociali, la crisi economica. Capaci di parlare al pubblico attraverso storie e immagini. Philippe Lioret ci era riuscito ad esempio con un film bello e terribile come Welcome, uscito nel 2009, e si ripete ora con modalità e temi differenti con “Tutti i nostri desideri”, che - tra le altre cose - lo vede lavorare ancora una volta con il bravissimo Vincent Lindon che diventa un po’ volto-icona del suo cinema. Differenti gli argomenti rispetto a quel fortunato precedente: qui non si racconta di un viaggio fisico attraverso l’Europa, in cerca di una speranza (quella del giovane iracheno Bilal che era disposto ad attraversare a nuoto la Manica pur di realizzare il suo sogno), ma sempre di un “viaggio” si tratta. Nei sentimenti, nel cuore di una nazione e di un continente in difficoltà, dentro le ferite di famiglie e di persone che combattono con la crisi, con i conflitti di coscienza, con il dolore di una malattia.
Sono almeno tre le storie che si intrecciano nel film di Lioret: innanzitutto quella di Claire (Marie Gilain) giovane magistrato che scopre d’essere gravemente malata ma contemporaneamente decide di occuparsi del caso Celine (Amandine Dewasmes), una mamma come lei che è vittima di un abuso perpetrato ai suoi danni da una banca. Poi c’è la storia di Stephane (Vincent Lindon) il giudice più anziano e disilluso, che sarà coinvolto nella vicenda, finendo per aiutare la giovane collega nella difficile causa per far rispettare il diritto perduto.
Lioret, come nelle sue opere precedenti, dimostra di saper affrontare questioni, temi complicati, scegliendo un approccio molto “personale”, per molti versi quasi intimo, che si svela nella vicinanza ai personaggi che racconta, alle loro storie tutto sommato semplici, quotidiane. Riconoscibili. Non c’è nulla di “rivelatorio” in quello che racconta, sin dalle premesse non vuol svelare chissà quali verità: piuttosto si accontenta (e non è cosa da poco, per molti registi italiani dovrebbe avere il sapore di una “lezione”) di portare in scena storie semplici, che hanno però un terribile sapore di verità. I sentimenti che mostra sembrano autentici, non retorici, anche quando toccano confini difficili come quelli del dolore o di una malattia. Le parole che mette in bocca ai suoi personaggi non sembrano finte o ricattatorie. Sembra vera la battaglia ideale condotta da Celine e sembra vero il “risveglio” di Stéphane che attraverso lei riscopre la sua antica strada e il desiderio di giustizia. Ed è dentro le loro storie che si sviluppa il percorso che il regista voleva portare sullo schermo: un viaggio dentro questi nostri anni, tra madri che fanno fatica ad assicurare il pasto alla mensa della scuola per i loro figli, e leggi economiche e di mercato che sembrano aver dimenticato ogni tipo di contatto con l’essere umano. Un viaggio tra le speranze perdute e i desideri rimasti, che qualche volta il cinema riesce ancora a raccontare.
PRIMA VISIONE Il cinema francese dimostra d’avere idee e di essere in buona salute. Non da adesso, non solo per gli Oscar a “The Artist”. Pur conservando le sue caratteristiche (per qualcuno i suoi difetti) mostra spesso una rara vicinanza ai temi d’attualità, una capacità di trattare argomenti che evidentemente sono vicini alla società
© RIPRODUZIONE RISERVATA