La “linea d’ombra” tra bianco e rosso

Per Leo il mondo è diviso esattamente in due dai colori. Da una parte il bianco, insopportabile, la tinta neutra delle ore vuote. «Il bianco è l’assenza, tutto ciò che nella vita riguarda la privazione e la perdita è bianco». E dall’altra il rosso della passione e del fuoco dei diciassette anni, il rosso del sangue e dei capelli di Beatrice.

Per Leo il mondo ha confini netti, chiari, fino a quando non si mischiano i due colori e tutto si confonde. Come quando in classe entra un professore che sembra diverso e che affascina per le letture che suggerisce. Un prof che non si può catalogare come gli altri e a cui si finisce per dare ascolto. Oppure come quando il rosso dei capelli di Beatrice si confonde con il bianco della malattia che sta invadendo il suo sangue. Bianca come il latte, rossa come il sangue prima di diventare un film è stato un clamoroso successo letterario, il libro che ha rivelato il talento di Alessandro D’Avenia che ora ha firmato soggetto e sceneggiatura della pellicola diretta da Giacomo Campiotti. Un romanzo (e un film) di formazione, ma non solo, un testo che ha provato ad avvicinarsi da una prospettiva particolare alla più difficile delle età, quella dell’adolescenza. E non c’è cosa più complessa da fare: viverla e raccontarla l’adolescenza.

D’Avenia, professore di liceo, ha messo molto di autobiografico in quelle pagine diventate una sorta di “manifesto” per moltissimi ragazzi lettori. Ora, con il suo contributo diretto nella sceneggiatura, si è provato a trasferire quel contenuto sullo schermo, attraverso le immagini di Campiotti che è regista che sin dall’esordio ha dimostrato di saper trattare con delicatezza il tema. A dare volto a Leo è Filippo Scicchitano che indossa i jeans e la felpa del protagonista per restituire i dubbi e le fragilità di questo diciassettenne, che si trova per la prima volta ad attraversare la “linea d’ombra” e a sentirsi improvvisamente adulto, complice la scoperta della malattia che ha aggredito l’amata Beatrice.

ll film che, banale dirlo (ma non è inutile ripeterlo), è altra cosa dal romanzo procede lungo due capitoli: una premessa più “leggera” di descrizione dei personaggi, che è assimilabile ad altri prodotti di genere italiani, seguita da una seconda parte in cui l’attenzione si sposta al cuore del testo e ci si concentra sulla scoperta del dolore che avvia il percorso di crescita di Leo e dei suoi amici.

Non solo un romanzo di formazione quindi ma pagine che sentivano il bisogno di parlare ai ragazzi quanto agli adulti erano quelle di D’Avenia. Ai genitori ad esempio e ai coetanei dell’autore trentenne, presente in maniera importante nel libro. Con un coinvolgimento diretto che si respira ora anche davanti alle immagini del film; e forse un maggior “distacco” dal creatore avrebbe giovato. Per consentire una chiave di lettura ancora più libera dal confronto con il libro. Molti dei suoi sottotesti rimangono inevitabilmente accennati, non approfonditi (come il rapporto con Dio e la ricerca della fede) ma Campiotti dimostra comunque sensibilità nel leggere l’universo dei ragazzi e nel descriverne passioni e turbamenti. Resta felice la scelta di raccontare in maniera volutamente ingenua la malattia, con gli occhi giovani di chi ancora non riesce a capirla fino in fondo. Per sottolineare ancora di più il successivo passaggio d’età che viene compiuto da Leo. Convince meno invece il lavoro fatto dal regista nella direzione degli attori, così come alcune scelte fatte per gli interpreti, per un mondo adulto che alla fine è tratteggiato con eccessiva superficialità. Così come didascalica rischia di suonare la colonna sonora affidata ai pur bravi Modà che sottolineano con troppa enfasi diversi passaggi del film.

PRIMA VISIONE - Per Leo il mondo è diviso esattamente in due dai colori. Da una parte il bianco, insopportabile, la tinta neutra delle ore vuote. «Il bianco è l’assenza, tutto ciò che nella vita riguarda la privazione e la perdita è bianco». E dall’altra il rosso della passione e del fuoco dei diciassette anni...

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