La maternità “difficile” della Comencini

Si chiudono come le pareti di una prigione le montagne attorno a Marina, giovane mamma mandata dal pediatra a prendere d’estate “aria buona” sotto il Monte Rosa assieme al suo bimbo piccolo. Una prigione di silenzio e di solitudine che rischia di farla soffocare e precipitare, accompagnata al disagio che la donna si è portata da casa. Una montagna imponente e bellissima che ha “conservato” anche i tormenti di Manfred, il solitario padrone di casa che le affitta l’ultima baita in cima al paese e che sembra nascondere un passato difficile: dal loro incontro esploderanno contraddizioni e dolori sopiti legati ai rispettivi ruoli di genitori. E la maternità (almeno quanto la paternità) sono i temi centrali di Quando la notte, il film che Cristina Comencini ha tratto dal suo romanzo omonimo e che arriva nelle sale con un cammino altrettanto “tormentato”, dopo essere stato presentato in Concorso alla Mostra del cinema di Venezia: prima i fischi dei critici (e gli applausi del pubblico) al festival e poi il divieto ai minori (assurdo) poi cancellato, per il tema trattato ritenuto troppo “forte” e controverso. Marina (Claudia Pandolfi) è una mamma in difficoltà, si arrampica su quella montagna costretta da tanti fattori (dal marito rimasto al lavoro in città, dal medico che consiglia al figlio di stare lontano dal mare, da un bisogno inappagato di riposo), mentre Manfred (Filippo Timi) ci è nato e ci è rimasto sepolto, nascosto fin quando non sarà Marina in qualche modo a riportarlo alla luce, risvegliando anche i suoi complessi mai superati.

È una storia di rapporti familiari e passato che ritorna quella della Comencini, un thriller dell’anima che inizia indugiando su inquadrature di grande suggestione e che immergono lo spettatore in una natura che dovrebbe rivelare tutto il senso di disagio dei due protagonisti, che in quei luoghi si sono rifugiati. Un film carico di promesse e che lascia alla fine con l’amaro in bocca per le potenzialità non sfruttate. Quelle offerte da un tema complesso e importante, che viene travolto dalle troppe cose che la regista vuole approfondire e finisce invece per accennare solamente (il ruolo dei padri ad esempio), quelle rappresentate da una coppia di attori che non rendono come potrebbero. Anche la scelta di accostare stili e cifre differenti (il thriller prima, il dramma dopo) genera confusione nell’economia della messa in scena. Che, infine, non mantiene la stessa tensione tra la prima parte (carica di tensione e di attesa) e la seconda decisamente meno riuscita e credibile. Molto sembra rimanere nelle intenzioni dell’autrice, che certo sente assai vicino e personale l’argomento, e forse non ha mantenuto la giusta distanza per restituirlo sullo schermo. Certo è che la parentela con il romanzo è troppo stretta e anche il testo cinematografico, la sceneggiatura, ne risentono. Ma è un “vizio” di tanto cinema italiano quello di non saper “asciugare” i film, i racconti, le storie che sono popolate da personaggi sempre troppo spiegati, mai lasciati con dei sottintesi, delle sfumature. Quando la notte vorrebbe essere un film sul silenzio e sul dolore nascosto: le intenzioni della regista sono chiare, addirittura “dichiarate” a gran voce. Poi sullo schermo l’emozione fatica a comparire e i personaggi lasciano lo spettatore con un senso di vuoto che non è quello dato dalle immagini.

PRIMA VISIONE - Si chiudono come le pareti di una prigione le montagne attorno a Marina, giovane mamma mandata dal pediatra a prendere d’estate “aria buona” sotto il Monte Rosa assieme al suo bimbo piccolo

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