Lo sguardo acuto di De Olivera

Il ritorno al cinema di un regista di 104 anni andrebbe sottolineato e applaudito di per sé. Per quello che rappresenta la voce artistica di un uomo nato nel 1908, per la sua storia personale. Poi compaiono le prime immagini di O Gebo e a sobra e gli applausi trovano nuova conferma. Così si può celebrare un nuovo film di Manoel De Olivera sullo schermo, a Venezia, in un festival che lo ama e lo apprezza da sempre e che il regista portoghese puntualmente ricambia. Come in questa occasione con questa nuova opera tratta da un testo di Raul Brandao presentata Fuori Concorso alla Mostra. Un film profondamente teatrale, con la consueta strabiliante qualità “pittorica” di una regia apparentemente immobile che invece sa comporre l’immagine prima che tutto accada e poi, semplicemente, lascia che l’azione si compia. La storia si svolge tutta in una stanza, nella casa di Gebo, un umile contabile che vive con la moglie e la nuora diventata figlia adottiva. Il figlio è fuggito, si immagina per dei guai con la polizia, anche se resta un’ombra sempre presente. Nei discorsi della madre, innanzitutto, che ignara delle sue malefatte aspetta un suo ritorno, nelle parole del padre che per proteggere la moglie dalla verità si inventa ogni giorno di averlo visto e annuncia un imminente ritorno a casa. In un dialogo continuo che coinvolge anche la figlia e due “ospiti” di casa che compaiono a un certo punto. Vero, falso, maschere, rappresentazione e realtà si intrecciano in un discorso che continuamente rimanda a riferimenti teatrali precisi e in cui compare anche una straordinaria attinenza persino con il teatro di Eduardo, spogliato della farsa però. L’“ombra” del figlio darà lo spunto a riflessioni infinite attorno ai vincoli familiari, all’amore di padre e di madre, agli obblighi alle speranze e alle delusioni.

Un discorso a parte merita poi il cast. Davvero una “linea” di attori che sono una gioia per gli occhi. Sulle loro spalle poggia tutta la struttura di un’opera così teatrale, “immobile”, che si regge sulle sfumature, delle luci, del testo, e delle loro espressioni. Il tono della voce (che veramente non andrebbe doppiata), gli sguardi, i movimenti lenti e impercettibili, ma decisivi: Michael Lonsdale è un padre dolente e ferito, ma indistruttibile nella sua determinazione. La difesa della moglie, della figlia, della casa vengono prima di ogni altra cosa ed è disposto anche a sacrificare sé stesso pur di non portare squilibrio in questa stanza desolata che protegge la sua famiglia. Poi c’è Claudia Cardinale che torna sullo schermo con una parte complessa, di una donna ferita, aggrappata ai suoi ricordi e al marito anziano, con un amore materno che non si può interrompere e che traspare in ogni parola, ogni gesto. Superiore a ogni altra cosa. Infine Jeanne Moreau che mette da parte il suo fascino intramontabile per dare un volto al personaggio della nuora, ironico, sottile, impagabile, capace di gettare un filo di luce nel quadro di desolazione che trasmette la stanza in cui va in scena tutta la rappresentazione. Spesso si sente parlare o si scrive di prove d’attore da ricordare, interpretazioni corali significative, ma raramente si è potuto vedere davanti alla camera da presa un così alto concentrato di classe e di maestria come nel caso del “quadro” dipinto da De Oliveira sui volti di questi attori.

L. D’A.

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