Loach, il “paladino rosso” va in Paradiso

Entra quasi dalla porta secondaria, parla a bassa voce, ma come al solito è impossibile non starlo ad ascoltare. E vedere le sue parole conquistare l’attenzione del festival intero, “rubando” anche la scena ai protagonisti del giorno. Ken Loach è a Venezia per ritirare il Premio Bresson, che da 13 anni viene assegnato dall’Ente dello spettacolo e dalla Rivista del cinematografo: «Un premio dei cattolici a un regista rosso», come sintetizza il presidente della Fondazione don Dario Vigano, anticipando la domanda che tutti tenevano a mezza bocca. «Il premio non è politico, è a un regista che ha fatto dell’impegno la sua bandiera - spiega Viganò -. Un autore che dà voce ai più deboli, regala attenzione agli ultimi che altrimenti non verrebbero mai investiti da un cono di luce capace di raccontare i loro problemi». E degli ultimi, della classe operaia, ha sempre parlato il regista inglese che da anni va completando un affresco sociale che ha pochi uguali, il racconto corale di un intero mondo mal rappresentato, sempre messo in secondo piano, dai media, dalla politica, dalla società. «Ho fatto il mio primo film nel 1963 - racconta Loach - e questo significa che la mia infanzia è stata negli anni ’40 e ’50: era un’epoca di speranza quella, di grandi cambiamenti, la sanità gratis, gli operai che erano proprietari delle fabbriche in cui lavoravano, il mio Paese faceva grandi cambiamenti dopo la guerra e pensavamo d’essere all’inizio di un nuovo mondo. Poi nel 1979 tutto è cambiato: la Thatcher ha ucciso il mio Paese, i progressi che erano stati fatti sono andati persi ed è iniziata la crisi di cui oggi ci dobbiamo occupare. Anche attraverso il cinema, come dimostra questo festival».

Crisi economica, di valori, finanziaria, umana, che coinvolge tutto e tutti come ha sottolineato anche il Cancelliere Angela Merkel che ha dichiarato che il mercato “è contro l’uomo”: «Il problema è più profondo ancora - dice Loach -: il problema è il mercato stesso, è il capitalismo che non riesce a far funzionare le sue banche, figuriamoci se può occuparsi o dirigere gli uomini. In questa società si è perso il senso di comunità e si celebrano solo l’invidia e il successo. A discapito di chi sta in fondo e non ha mai voce sui giornali, nelle televisioni, nelle pubblicità che si basano solo su modelli vincenti. Ma la storia non è statica e ed è in continua trasformazione. E quindi le cose cambieranno: per me la speranza sono i lavoratori e le persone che si impegnano». Magari anche con l’aiuto del cinema e di registi che diffondono le loro storie…: «Il cinema ha una piccola voce, e sono contento che sia così quando vedo Clint Eastwood sostenere la campagna politica di un candidato (il riferimento è alla corsa presidenziale di Romney contro Obama, sostenuta dal regista americano, ndr). Sono felice che sia così, altrimenti saremmo tutti come Charlton Heston armati di pistola… Possiamo però fare film per dare voce e solidarietà a chi combatte per un posto di lavoro, chi è disoccupato o chi è sfruttato. È giusto ad esempio sostenere la battaglia del regista Panai incarcerato in Iran per i suoi film, o dare voce all’opposizione in Cina che non può esprimersi. È stato giusto non portare i film nei Paesi che sostenevano l’apartheid o sostenere la Palestina che è oppressa. Il compito del cinema è rivolgere lo sguardo verso chi lotta e si impegna per le giuste cause, dare la solidarietà che è negata da questa società. E le cose cambieranno, prima o poi cambieranno. Perché altrimenti non avremo più nulla per cui vivere».

Parole dure, importanti, che fanno eco a quelle che aveva appena pronunciato il Patriarca di Venezia, monsignor Francesco Moraglia, introducendo il regista: «La nostra è una società che premia gli uomini di successo, la storia viene scritta dai vincitori e per questo non insegna mai a non ripetere gli errori del passato. Bisogna invece posare lo sguardo sui precari della vita, su un’umanità che appare destinata a un’esistenza di Serie B. Ken Loach fa proprio questo con il suo cinema, esprime il concetto cristiano di giustizia che è ripetuto nel Vangelo: dare a ogni uomo una possibilità di esprimersi, raccontare gli ultimi che sono in cerca di riscatto».

Lucio D’Auria

© RIPRODUZIONE RISERVATA