Madri, figli e una “vita davanti”: la prova di bravura di Sophia Loren
CINEMA... IN STREAMING: L’attrice torna a recitare dopo dieci anni di assenza dal set diretta dal figlio nel film tratto dal romanzo di Romain Gary
Una madre lo sa. Sa come restituire la speranza a un bambino. Una diva anche lo sa: caricarsi sulle spalle un film intero e fargli prendere la strada. Se questa madre poi è Sophia Loren il gioco (cinematografico) è praticamente fatto.
Madame Rosa, il personaggio centrale di La vita davanti a sé è un’ex prostituta, è «una tosta, senza smancerie». Proprio come questa Sophia leggenda vivente che si mette addosso i panni della popolana, che in strada va a prendere i figli abbandonati dalle madri che non possono crescerli, e con questo ruolo si regala - dieci anni dopo l’ultimo film - un’altra bella occasione di cinema. A dirigerla c’è il figlio, che meglio di chiunque altro riesce cogliere le sfumature e i riflessi dell’attrice e della donna, esaltando e illuminando ogni ruga, ogni espressione o slancio in dialetto.
Hollywood è lontana anni luce, siamo nei bassi (anche se illuminati con una cura che tiene lontana la sofferenza) e Sophia è Madame Rosa come lo era stata Simone Signoret nel primo adattamento cinematografico del romanzo (del francese Romain Gary, scritto sotto lo pseudonimo di Émile Ajar) che nel 1978 vinse l’Oscar per il film straniero con la regia di Moshé Mizrahi. Una grande prova d’attore allora, altrettanto si può (e si deve) dire oggi, con in più il legame con il figlio regista ad amplificare le emozioni e allargare le prospettive da cui guardare questo film. Che ha innanzitutto il merito di riportare in scena la Loren, si è detto, ma ha anche altre cose da dire.
La vita davanti a sé è un film insospettabilmente attuale, che parla di tolleranza, di perdono; di madri e figli e del potere salvifico dell’amore. Edoardo Ponti spende tutte le sue energie per catturare quelle naturali della madre che - proprio come ha raccontato il regista - si impegna sul set come fosse il suo primo film e non fosse la più celebrata diva del nostro cinema. «Io e la felicità non siamo della stessa razza»: la protagonista diventa il suo personaggio, rende credibile questa donna che sta dalla parte degli ultimi senza concedersi alcun vezzo se non quello elegantissimo del suo dialetto (si gira in Puglia ma naturalmente Sophia non può che essere napoletana). Non è lo sguardo realista quello che va cercato ma l’emozione del racconto, e in questo la produzione è piuttosto sincera.
Poi, è naturale, il film fa fatica a tenersi nei binari quando deve trasformare in cinema tutta quanta la materia del romanzo e deve affrancarsi dalla pagina per dimostrare di vivere di luce propria. Il compito del regista è improbo: per metterci del suo e mostrare la sua mano deve fare i conti con una tappa dolomitica, tra il romanzo e la forza della sua protagonista.
Ma qui arriva in soccorso Sophia, madre che sa cosa deve fare proprio come Madame Rosa: lei non deraglia mai, non esce dai binari, e quando compare in scena il film si accende.
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