Se qualcuno, prima di vederlo, si era chiesto come possa uno spettacolo essere ancora riproposto con successo dopo trent’anni dalla sua prima rappresentazione, dopo aver visto Mi voleva Strehler non ha più alcun dubbio: il monologo, che ha visto Maurizio Micheli sul palcoscenico dell’Auditorium Bpl martedì sera, è semplicemente un piccolo, perfetto gioiello di comicità intelligente, garbata, graffiante, che non lascia un attimo di tregua allo spettatore; si ride dall’inizio alla fine, e spesso ci si accorge di dover sforzarsi di ridere in silenzio per riuscire a cogliere la battuta successiva, che arriva, esilarante e inesorabile, pochi attimi dopo la precedente. Scritto nel 1978 da Umberto Simonetta insieme allo stesso Micheli, il testo non è stato aggiornato o attualizzato, e perciò ci riporta direttamente alle atmosfere, ai miti, ai sogni della Milano teatrale di quegli anni, e si spinge indietro fino al decennio precedente, che culmina con il maggio francese del sessantotto. Ma non per questo si avverte come datato, anzi: a quelli che “c’erano” ricorda con ironia e un pizzico di nostalgia le esperienze e gli entusiasmi di chi era giovane allora; per i più giovani, è una rivelazione comunque godibilissima. Non ridono diversamente i giovani e i meno giovani alla strepitosa parodia di una canzone della “mala”, o al numero di assoluta perfezione di tempi e ritmi in cui l’attore riproduce la tecnica del mimo di Marcel Marceau. In due tempi calibrati con estremo equilibrio, viene raccontata la storia di Fabio Aldoresi, attore di origine toscana e vissuto a Bari durante l’adolescenza (Micheli ripercorre le tappe della sua reale biografia) che, approdato a Milano per frequentare la scuola del Piccolo Teatrao, una volta diplomato si trova a dover lavorare ogni sera per sbarcare il lunario in un cabaret di infimo livello, dove si affanna a spiegare le battute di humour inglese a un pubblico becero e volgare; ma intanto sogna il grande teatro, e un giorno gli capita l’occasione di un’audizione davanti al Grande Maestro Strehler. Lo spettacolo mette in scena appunto le sue paradossali e angosciose riflessioni in attesa del provino. Il testo di Simonetta (che in quegli anni, dopo una fortunata esperienza nel teatro di rivista, era a sua volta approdato come autore al cabaret intelligente, a fianco, per esempio, di Giorgio Gaber) offre un campionario di lucide e spiritosissime variazioni sulle principali esperienze del teatro di ricerca di quegli anni, dal Living ai drammi brechtiani. Micheli, con la stessa freschezza di trent’anni fa, e con il mestiere consumato di chi conosce al millesimo i tempi e i meccanismi di una comicità mai volgare, accompagna il suo personaggio in una performance senza sbavature. Ci sono pezzi da antologia, come la riflessione piena di ammirazione un po’ invidiosa sui belli del cinema dell’epoca, come Alain Delon, di cui Fabio tiene un poster appeso al muro, insieme a quelli di Clark Gable e Cary Grant: quelli che “appena svegli al mattino sono già belli”; o le fulminanti parodie di frammenti dalle grandi messe in scena strehleriane dell’Opera da tre soldi e del Re Lear. Tutto proposto a velocità supersonica, con effetto irresistibile: applausi anche a scena aperta, e calorosissimi alla fine, per uno degli spettacoli più divertenti delle ultime stagioni.
Maurizio Micheli ha portato sul palcoscenico dell’Auditorium Bpl la piece scritta con Umberto Simonetta nel 1978, che non si è dimostrata per nulla datata
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