«Con un salto siamo nel Duemila, alle porte dell’universo, l’importante è non arrivarci in fila ma tutti quanti in modo diverso»… Ecco come sarebbe potuta andare se fosse arrivata veramente quella telefonata nel nuovo millennio, ecco Sandro, Betta, Claudio e Paolo amici da sempre che si ritrovano a cena (anche se son passati più dei vent’anni della canzone di Lucio Dalla che sembra tenere insieme le loro storie) per scoprire quale sarà il nome scelto per il nuovo arrivato della “famiglia”, il figlio di Paolo e Simona. Si ritrovano e li guardiamo un po’ da lontano ognuno con la sua storia appunto, ognuno con segreti più o meno inconfessabili che naturalmente verranno alla luce proprio durante la cena.
Che è la stessa dell’opera teatrale di successo Le prénom, di Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, da cui era nata anche la versione francese per il cinema Cena tra amici. Uno spunto per Francesca Archibugi e per lo sceneggiatore Francesco Piccolo che con Il nome del figlio presto si allontanano dal modello per rendere italiana la vicenda. Non sono quindi solo i conflitti tra i quattro amici a esplodere improvvisi attorno al tavolo, ma quelli di una generazione intera, di uno scorcio di Paese che la regista continua a osservare con sguardo malinconico, come da lontano, «da una mongolfiera» appunto, ma senza sapersene distaccare veramente.
Lo scherzo di Paolo sul nome da dare al figlio scatenerà i contrasti irrisolti, i “non detti” di una vita intera, in un salotto borghese e “radical” che sembra soffocare però sotto troppi luoghi comuni, sotto quegli stereotipi su cui sono costruiti i personaggi che però non prendono il respiro ampio che il racconto richiederebbe, restando chiusi nel bellissimo appartamento snob nel quartiere popolare in cui stanno, rifugiati e distanti, Betta e Sandro. Lui professore universitario, colto e di sinistra, perennemente perso dentro i “tweet” che manda ossessivamente, senza accorgersi delle frustrazioni della moglie, figlia dell’onorevole e appartenente alla famiglia scampata ai nazisti, importante e ingombrante e di cui non ha mai fatto veramente parte Paolo, il figlio “indisciplinato” che nel frattempo ha fatto i soldi come agente immobiliare, senza leggere nessuno dei libri accatastati sugli scaffali di casa, ma permettendosi una bella macchina e una bella moglie, la “popolana” Simona che un libro di suo l’ha pure scritto e stravenduto, per la rabbia del cognato. Con loro c’è Claudio, il “fratello aggiunto”, quello cresciuto in simbiosi ma anche quello che forse conoscono meno…
Archibugi e Piccolo raccontano la Roma divisa in classi, i quartieri, lo scorcio di una stagione passata e rimpianta. E un’attualità assai meno amata. Mantengono l’impianto teatrale del testo, ma rischiano di parlarsi addosso, come i cinque protagonisti, che devono inevitabilmente andare sopra le righe travolti dai rispettivi rimpianti, nella foga di dirsi tutto in faccia all’improvviso. La regista muove la macchina su e giù per le scale, dentro le stanze, allunga i piani sequenza per dare un taglio personale e uscire dal palcoscenico, conferma la sua abilità nella direzione degli attori e gran parte della riuscita del film poggia infatti sugli interpreti: Alessandro Gassmann, Luigi Lo Cascio, Valeria Golino, Rocco Papaleo e Micaela Ramazzotti che riescono senza dubbio a creare una forte alchimia tra di loro.
Lo sguardo è amaro, ma mai davvero cattivo, più comprensivo che accusatorio. Intenerito dalle rughe e dall’effetto che il trascorrere del tempo ha avuto su tutti. Non esplode il dramma caustico come in Festen, non vanno al massacro gli opposti come in Carnage. Ma una certa complicità accompagna in sottofondo l’incontro dei protagonisti, ancora insieme «dopo vent’anni», ancora senza sapere «cosa rispondersi».
© RIPRODUZIONE RISERVATA