L’ottavo film di Quentin Tarantino è un western. Come il settimo (Django Unchained) ma prima ancora come gli amatissimi italiani nella declinazione “spaghetti”. Ci sono otto uomini chiusi in una baracca, ad aspettare, mentre la tensione sale a dismisura. Fuori c’è il gelo del Wyoming nel momento in cui si scatena una bufera di neve, dentro la tempesta deve ancora esplodere, da un istante all’altro, ma non si sa come e quando. Si scopre piano piano il perché: gli otto “odiosi” del titolo sono cacciatori di taglie, delinquenti, assassini, finti sceriffi, dei nuovi “bastardi senza gloria” che nascondono qualcosa. Tarantino li chiude dentro una stanza, come le sue “iene” e muove la macchina da presa in maniera circolare, seguendo il loro verboso confronto, un dialogo parossistico che deve arrivare al punto di rottura, far esplodere l’irreparabile, che è atteso, annunciato, prevedibile anche, e deve essere per questo fragoroso.
Diviso in capitoli, inzeppato di citazioni (e di auto-citazioni) The hateful eight è una veronica continua, il colpo ripetuto del campione che cerca il gol da centrocampo, per lasciare lo spettatore ancora una volta a bocca aperta, ammirato dal talento del fuoriclasse. Tarantino gioca a fare l’incolto, poi però semina il suo film di tracce, generi, argomenti e attualità: mischia il western e la politica, il thriller e l’horror per portare lo spettatore a spasso nei suoi territori preferiti. Riempie la sceneggiatura all’inverosimile, come suo uso, costruisce un meccanismo praticamente perfetto. La sensazione però è che continui a fare tutto per se stesso, impegnato in un’unica partita giocata a serie di colpi di tacco, di tunnel… Fa saltare teste, vomitare sangue, esplodere la violenza, mentre un pianoforte intona White Christmas nel pieno di un consesso di pendagli da forca.
Fa insomma mezzo passo in avanti e uno o due all’indietro, seguendo i suoi attori feticcio (Samuel L. Jackson, Tim Roth, Michael Madsen, ma ci sono anche i ritorni di Kurt Russell, Walton Goggins e Bruce Dern) in un confronto che si fa sempre più serrato, in attesa che la bufera passi fuori dall’emporio di Minnie ed esploda dentro, quando il meccanismo a orologeria scatterà (lo spettatore lo ha visto, ma non lo ha ancora capito, ha visto la porta che non si chiude, la caramella sul pavimento…) e il senso della tragedia (ovviamente in chiave “iper“) sarà compiuto.
Girato nello spettacolare formato Ultra Vision 70 millimetri, arricchito dalla colonna sonora del maestro Morricone, The hateful eight è destinato a dividere, sin dal principio. Impossibile non schierarsi né tantomento restare indifferenti, il pericolo peggiore però potrebbe essere persino la noia (intollerabile pensando che dietro tutto quanto c’è il geniale autore di Pulp fiction, ma non impossibile da escludere nelle tre ore di film…). «Il guaio della guerra è che la gente muore» filosofeggia il cacciatore di teste con il fucile spianato, poco dopo aver colpito il suo prigioniero, una donna, sdentata e cattivissima, ma ammanettata e indifesa e prima di iniziare una riflessione serissima sul senso della giustizia. Tarantino è così: tira fuori una lettera di Lincoln (autentica? l’ennesimo sberleffo?) e la sporca di sangue, per continuare a mischiare l’alto e il basso, così come chiude fuori dalla porta quel paesaggio ostile, gli spazi larghi, immensi, che fino a un attimo prima aveva ripreso meravigliosamente, per raccontare tutto dentro quattro pareti. Assecondato da un montaggio che fa crescere la tensione in maniera perfetta, come in un giallo di Agatha Christie, mette i suoi otto cowboys maledetti su un palcoscenico teatrale e riprende a fare con il dialogo quello che prima aveva fatto con la macchina da presa. Però il gesto tecnico sembra un colpo già visto, e pure l’applauso alla fine sembra più stanco e quasi dovuto.
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