Terrence Malick, il regista filosofo

Se il regista-filosofo Terrence Malick, che in carriera ha diretto solo sei film, ne realizza due nello spazio di ventiquattro mesi è impossibile non leggere una sorta di continuità, un filo conduttore che da una pellicola parte per arrivare all’altra. Così To the wonder, probabilmente il più atteso tra i film in Concorso alla Mostra di Venezia 2012, presentato ieri e accolto con reazioni opposte dalla critica, sembra proseguire in qualche maniera il viaggio iniziato da Tree of life. Lo stesso stile quasi “anarrattivo”, spogliato quasi dall’azione, la trama che resta un filo sottile da seguire, la storia che procede attraverso la voce dei protagonisti, come in un fluire di pensieri che accompagnano le immagini straordinarie sullo schermo, fanno intravedere una sorta di percorso unico tra le due opere. Qui al regista che andava in cerca del senso e dell’origine della vita, interessa interrogarsi sull’amore, in bilico tra il sentimento di una coppia che vive una crisi, intrecciando i loro dubbi con quelli di un sacerdote che si interroga invece sull’amore per Dio e sulla fede.

Difficile come sempre restare indifferenti davanti a Malick che ovviamente divide, anzi spacca letteralmente in due fazioni: la sua coppia che arriva “in cima alla meraviglia” a Mont Saint Michel e già sente la terra sciogliersi sotto i piedi, come una sabbia mobile che poi li coprirà quando la vita di tutti i giorni irromperà, affronta domande importanti, assolute, da non banalizzare. Quesiti a cui il regista dà (o prova a dare) risposte che sono cariche di spiritualità, pervase da quel forte senso di fede che sempre accompagna il suo cinema. Attraverso le immagini, bellissime, ma non di maniera, sul filo delle parole che dice e di quelle che spesso tace, Malick affronta un grande discorso sul vuoto, sulle distanze, sull’amore che muore e sul senso che si perde: gli abbracci dei suoi amanti sono comunque distanti, freddi, come il paesaggio che accoglie Marina (che ha il volto di perla di Olga Kurylenko) quando da Parigi si trasferisce nella provincia americana per seguire Neil (Ben Affleck). Una natura ostile, ancora una volta, fa da contrappunto ai dubbi della donna, alle sue difficoltà, e la respinge fino a farla tornare sui propri passi.

Il conforto non arriva per lei e per Neil nemmeno dai colloqui con il sacerdote che compie una sorta di cammino “parallelo”, quando si interroga sui doveri e sulle aspirazioni della coppia e sulla sua vocazione.

Il cinema di Malick fa quasi a meno della “storia” che anche in questo caso è quasi accennata, lo spunto per continuare un discorso avviato nelle pellicole precedenti e che questa volta è puntato sulla coppia, sul sentimento, assolutizzato. La sua riflessione procede secondo uno schema che può affascinare o respingere, con la stessa identica forza. Non si tratta però di farsi “ingannare” da inquadrature mozzafiato o da una partitura per immagini e musica di rara bellezza: il suo discorso vola sempre “alto” e costringe a interrogarsi nel profondo, conduce in un territorio senza tempo e con spazi dilatati, in cui c’è anche il concreto rischio di perdersi. Dove contano i gesti degli attori, i movimenti di macchina che trasmettono emozioni rare, partorite da un regista ancora oggi unico.

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