Più denti, più grande, più spaventoso. Il pubblico ormai ha imparato a divorare tutto in fretta e «la visione di un dinosauro fa alla gente lo stesso effetto di un elefante allo zoo». Per questo serve altro per mettere paura ai visitatori del nuovo parco “jurassico” così come agli spettatori del quarto film della serie, che arriva ventidue anni dopo l’originale.
Ecco Jurassic World, nato sulle ceneri dei tre episodi precedenti con l’obiettivo di rilanciare il filone (per una nuova trilogia?) grazie a nuovi spunti. In verità per ripartire regista e sceneggiatori guardano saggiamente al passato, tornano alle origini. A Jurassic Park, è scontato, ma ancora più indietro a Il mondo dei robot dello stesso Michael Crichton. Con un occhio (e un omaggio dichiarato) a Spielberg (qui in veste di produttore) e a Lo squalo, anche se in questo caso la riflessione sulla paura non si spinge fino alle profondità di quel film.
Sono passati 22 anni quindi dai primi esperimenti e dal primo parco creato per i dinosauri, e oggi su Isla Nublar esiste un gigantesco centro di divertimento, popolato da decine di creature. Che ahimè non fanno però più paura. O non ne fanno abbastanza. Ecco allora che la direzione del parco si inventa una nuova attrazione, un “mostro” ancora più spaventoso, ottenuto modificando il Dna di alcuni dei colossi già chiusi in questa gabbia tecnologica travestita da foresta incontaminata.
Non è più il pericolo nucleare lo spettro, sono passati più di sessant’anni dal primo Godzilla, e ora è dal laboratorio, dalla presunzione di strapotere dell’uomo che bisogna diffidare. Dal suo giocare con le cellule che porta a creare esseri che poi sfuggono al controllo. Lo schema narrativo di questo quarto film riprende quello originario, aggiornando di poco qualche contenuto, alzando un po’ dove possibile il livello dello spettacolo e della paura anche se, come temono gli stessi inventori del parco “jurassico”, ormai è difficile far sobbalzare il pubblico. Tocca immaginare esseri sempre più spaventosi, come la creatura anfibia che si solleva dalla piscina per mangiarsi quello squalo che ora sembra fatto di gomma (ma solo perché lo vedete appeso come al mercato del pesce…). Mostri geneticamente modificati dunque che mettono a nudo l’impreparazione di chi li ha creati, la fragilità dell’uomo stesso che si sente al sicuro e protetto, dietro muri che non saranno mai abbastanza alti o vetri mai abbastanza spessi (e il discorso sembra allargarsi anche al “diverso“ ma presto si capisce che non è questo il luogo o il momento).
È evidente il tentativo del regista Colin Trevorrow di ricollegarsi al filone principale, lo fa nella scrittura e nella scelta del colore ad esempio, nella grana che richiama quella della pellicola. Con i rimandi continui al film originale, mischiando anche gli stessi generi, senza quindi trasformarsi in un horror e mantenendo anche tensione, divertimento e un certo gusto per l’avventura. Per arrivare ad affermare che, alla fine, la natura si prende sempre la rivincita, anche se per ribadirlo deve tornare un colosso preistorico, finalmente padrone del suo destino e (con gli uomini in fuga) della sua isola (artificiale).
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