Forse qualcuno dovrebbe spiegare ad Ezio Greggio come si fa un film. Qual è la migliore strada produttiva e creativa – sulla distribuzione il comico e conduttore di Striscia la notizia non ha problemi visto il lancio in grande stile del suo Box Office in 3D - e infine come si conquista il pubblico con una buone dose d’impegno e glamour. Tutto questo viene profuso a piene mani da George Clooney e dal prestigioso e inarrivabile cast di Le idi di marzo, sua quarta regia e ritorno al cinema più eticamente militante che aveva contraddistinto Good night, and Good luck!, dopo la parentesi più propriamente brillante di In amore niente regole. È facile supporre come Le idi di Marzo possa essere uno dei film più accreditati per il Leone d’Oro. Pare e forse lo è prematuro far pronostici con un paio di soli film proiettatati del Concorso, ma fuor di dubbio, per acclamazione, il film di Clooney farà discutere ancor più quando uscirà sugli schermi italiani all’inizio del prossimo mese di gennaio. La distribuzione è curata dal colosso della 01. Un baby-boomers (Ryan Goosling) sta stracciando la concorrenza in fatto di opinion-maker della politica americana. È il numero due del team che guida la campagna elettorale del senatore del Winsconsin, Morris (George Clooney). Si è alle ultime battute delle primarie che lanceranno il candidato alle presidenziali del Partito democratico. Non è l’altro candidato, tal Pullman, guidato dallo spregiudicato Duffy (Paul Giamatti), a spaventare l’entourage, ma piuttosto una certa capacità degli stessi ad ostentare sicurezze e spavalderie che sembrano in apparenza non appartenere a Morris, la cui integrità morale si specchia negli schermi televisivi e nelle convention cui partecipa. I temi sono tutti centrati sul rispetto dei valori della Costituzione americana. Il “dietro le quinte” però è altra cosa. Gli intrighi, le ripicche, il cinismo dei protagonisti è sorprendente e coinvolge tutti. Nessuno è escluso. Il ricatto è l’arma vincente. Fino a quando? Dalla stagista figlia di papà fino al portavoce del futuro candidato: tutti hanno qualcosa da nascondere. E dall’altra parte non sono da meno. La battaglia è senza esclusioni di colpi. Persino la giornalista acchiappa-scoop del «New York Times» buca la notizia (Marisa Tomei). Uno vince, tutti perdono. Qualcuno ci lascia la pelle. Qualcun altro come il portavoce del senatore (Philip Seymour Hoffman), campione di lealtà, sarà estromesso e dovrà ritirarsi in ufficio qualunque di consulenza ad un milione di dollari l’anno. Niente male con i tempi che corrono. Ma poco per chi ha il desiderio di sentirsi sempre l’adrenalina correre al massimo. Le seconde file avranno molte più chance di arrivare. Detto così, il film si mostra come un puzzle incandescente. La difficoltà non è nel seguire l’evoluzione dei comportamenti dei protagonisti. È complicato al contrario riconoscere la grandissima operazione di Clooney che preleva da un copione teatrale, Farragut North di Beau Willimon, e con il fido sodale e uomo-chiave di tutto il suo cinema, Grant Heslov, l’essenza drammaturgica dei personaggi – il senatore lo inventa – e li lascia scivolare su una successione di generi cinematografici che spaziano dal dramma classico fino al western più moderno e atipico passando per sprazzi di polar e melò francesi confinando l’ultima parte al thriller più assolutorio e amletico mai visto negli ultimi anni.
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