Due astronauti vagano nello spazio legati da un cordone di sicurezza che li tiene uniti e attaccati alla vita. Sembrano gli innamorati tragici di Kitano, in realtà stanno andando alla deriva e cercano “solo” di sopravvivere. Semplice, blu e impossibile da toccare: laggiù, lontano centinaia di chilometri, il pianeta che i due hanno lasciato per la missione (la riparazione di un satellite in orbita) è sin dalla prima scena il personaggio aggiunto, protagonista muto immerso nel buio dello spazio. Si riflette nei caschi, nelle pupille degli astronauti, viene inquadrato dall’oblò di un portellone, è la meta che cercano di raggiungere, la casa, la terra dove poter riaffondare i piedi, l’oceano all’interno del quale poter riprendere vita e respiro.
È un kolossal d’autore Gravity di Alfonso Cuaròn, un’opera ardita e complessa: un dramma fanta-filosofico, girato in 3D, con soluzioni a tratti sorprendenti e di rara spettacolarità, che racconta l’odissea dei due astronauti Ryan Stone (Sandra Bullock) e Matt Kowalsky (George Clooney) che alla deriva nello spazio, all’esterno della loro navicella andata distrutta, cercano una maniera per tornare a casa. Sospesi a 600 chilometri di altitudine sul pianeta, legati uno all’altra, con poco ossigeno e nel silenzio totale lanciano un grido sordo, un’invocazione che rimbomba nei caschi e si perde chissà dove, e dà il senso di disperazione e di ricerca dei due che hanno fame d’aria e di vita, mentre guardano da lontano la Terra, la loro casa, così lontana e irraggiungibile.
Ci ha messo 5 anni per pensarlo e realizzarlo Cuaròn, e il progetto ha richiesto uno sforzo complesso innanzitutto dal punto di vista tecnico (per ricreare l’effetto dell’assenza di gravità e per coordinare il lavoro degli attori con tecnico). Ma alla fine Gravity è un film riuscito e incredibilmente avvincente che seguendo l’esempio dei grandi classici mette in un sottotesto molti temi: la ricerca di un senso da dare alla vita e il confronto con la morte innanzitutto, il valore dell’esistenza e la necessità di dare risposte a quesiti assoluti, primordiali. L’uomo arrivato nello spazio grazie alle più moderne tecnologie, alla fine ripete la stessa domanda che si faceva, sin dall’alba dei tempi, con lo sguardo rivolto al cielo:«C’è qualcuno che mi ascolta?».
Spirituale e filosofico, il film di Cuaròn è anche abile nel non spingere troppo in profondità la sua riflessione su questi argomenti, e rimane sempre a un livello di intelligibilità quasi immediata. Il suo film però è molte cose: è una spettacolare opera di genere e contemporaneamente un introspettivo dramma sul ritorno a casa. Un film sul sogno di onnipotenza della tecnologia che va in frantumi e un’odissea che ribalta i ruoli e la meta.
Con Gravity Cuaròn si conferma autore importante, capace di tenere insieme Hollywood e un cinema pensato e strutturato su molti livelli. Coraggioso come un kolossal che ha solo due attori sullo schermo, impegnati in un dialogo continuo come unica possibilità per rompere il silenzio. E con due star costrette a recitare dentro una tuta spaziale, rinunciando a parte delle “armi” di immediato richiamo per il pubblico. Il regista uccide e poi fa rinascere i suoi personaggi, li spedisce in orbita in una bolla tridimensionale senza aria e senza rumori, li tiene aggrappati per un cavo, una corda che può essere la salvezza ma anche la condanna ma sempre, sullo sfondo o in primo piano, tiene lo sguardo su quel pianeta lontano e su quelle poche domande senza tempo. Domande che anche senza gravità rimbombano assordanti e indispensabili, mentre le sagome degli astronauti si allontanano in sequenze di grande bellezza e spettacolarità, come quel primo lunghissimo “piano” iniziale lungo 17 minuti che toglie il fiato.
PRIMA VISIONE Due astronauti vagano nello spazio legati da un cordone di sicurezza che li tiene uniti e attaccati alla vita. Sembrano gli innamorati tragici di Kitano, in realtà stanno andando alla deriva e cercano “solo” di sopravvivere...
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