VENEZIA Il viaggio di Giorgio Diritti dalla parte degli ultimi

“Lubo” è il sesto e ultimo italiano in Concorso

Giorgio Diritti ha raccontato gli emarginati (Volevo nascondermi), le comunità rurali (Il vento fa il suo giro), la Storia (Marzabotto in L’uomo che verrà) e ora con Lubo (sesto e ultimo italiano in Concorso a Venezia 2023) sembra tirare i fili della stessa tela per portare alla luce una vicenda misconosciuta, quella della comunità Jenisch e del programma del governo elvetico che a cavallo della seconda guerra mondiale sottrasse e chiuse in orfanotrofio i figli di questo popolo nomade.

Il protagonista Lubo (interpretato da Franz Rogowski di Freaks Out) viene separato dalla famiglia e arruolato nell’esercito svizzero nel 1939, i figli e la moglie abbandonati al loro destino e lui a difendere i confini da una temuta invasione tedesca. Fino al suo incontro casuale con un commerciante austriaco che cambierà per sempre la sua vita…

Giorgio Diritti lascia sullo sfondo la grande Storia, agita le ombre della follia nazista, mentre segue Lubo che tra espedienti e trasformazioni cerca di scoprire dove sono finiti i suoi figli, e di ricongiungersi a loro e all’amata moglie. La danza iniziale con cui si apre il film, una rappresentazione di teatro di strada con il circense Lubo che si trasforma da animale in donna, è destinata a interrompersi bruscamente, mentre il film prende corpo e cambia a sua volta vorticosamente tono assieme all’esistenza del suo personaggio.

Gli ultimi, gli emarginati restano la materia più interessante per Giorgio Diritti che attraverso questa singolare vicenda (il film è tratto dal romanzo Il seminatore di Mario Cavatore) aggiunge una nuova tessera al puzzle del suo cinema.

La durata importante (tre ore e un minuto di film) permettono al regista di attraversare un ventennio di storia, fino al 1959, passando dalla Svizzera del cantone dei Grigioni dove tutto ha inizio, all’Italia e a Verbania sull’altra sponda del lago. Seguendo l’ostinata missione di Lubo che scopre e svela allo spettatore la vicenda (reale, ammessa poi dal governo svizzero solo nel 1987 quando face pubblica ammenda) del traffico di minori che coinvolse associazioni e autorità elvetiche. La decisione di girare il film - nella sua prima parte - nel dialetto locale, sottotitolato in italiano, sembra confermare uno sguardo autoriale già noto del cinema di Diritti, anche se il taglio del racconto e alcune scelte di sceneggiatura e di regia alla fine sembrano allontanarsi dal tono del grande romanzo storico e paradossalmente paiono occhieggiare a un pubblico più televisivo che non da sala di cinema d’essai.

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