Vite in seminario

sotto il fascismo,

tra fede e storia

Luisito Bianchi

Il seminarista

Sironi, Milano 2013, pp. 22, 16 euro

La Resistenza oltre il mito della Resistenza, quella che che si celebra ogni anno il 25 aprile tra corone deposte e discorsi istituzionali. Una Resistenza senza esaltazione o retorica, che è piuttosto rinascita personale, scoperta profonda di una vocazione che fa del dono gratuito di sé e della condivisione della pena e della gioia altrui («di carne viva, con ferite e trasalimenti di gioia») il suo fulcro e il suo senso ultimo: la vocazione alla vita consacrata.

«Se sono prete, e con il desiderio che il mio sacerdozio non sia un’aggiunta o una sovrapposizione al mio essere uomo (posso dire che sia un tutt’uno) lo debbo a quel tempo […]».

Così scriveva nel 1992 don Lusitio Bianchi, per molti anni cappellano nell’abbazia sangiulianese di Viboldone e al contempo ritirato quando straordinario scrittore, scoperto quasi per caso da Sironi nel 2003 quando lanciò sul mercato un romanzo potente e di squisita fattura stilistica quale La Messa di un uomo disarmato, preludio ad altre opere di grande qualità pescate in un archivio straripante di scritti e generoso di emozioni. E queste parole l’editore milanese ha voluto collocare opportunamente in calce all’ultimo lavoro del sacerdote cremonese, mandato in stampa postumo (l’A. è scomparso 85enne il 5 gennaio del 2012) poche settimane fa con il titolo de Il seminarista.

Un’opera che ripropone fedelmente il dattiloscritto vergato da don Luisito nei primi anni Settanta e mai approdato all’onore dei torchi forse per una forma di ritrosia a rivelare trasalimenti, dubbi e paure provate nel momento in cui maturò in lui, proprio nel caldissimo torno di tempo trascorso fra l’8 settembre del ’43 e il 25 aprile del ’45, la spinta vocazionale. È difficile infatti pensare che nella vicenda del giovanissimo seminarista protagonista del romanzo non si celino tratti autobiografici. A partire dall’esperienza seminariale in un istituto rigoroso e inamidato avviata quasi per caso a soli nove anni sotto l’influenza di un arciprete carismatico e poi maturata, non senza dubbi e repulse, ai tempi del liceo, sotto l’incalzare dei drammi della guerra e dell’oppressione nazifascista.

Il libro incede lento, quasi mimeticamente cadenzato sui ritmi della vita dentro un seminario dei primi anni Quaranta del secolo scorso – fra studio dei classici, sgranare di rosari e lunghe ore di “dottrina” -, e privilegia la dimensione meditativa rispetto all’azione, cui l’A. cede soltanto, e inevitabilmente, nel concitato e quasi improvviso finale. Bianchi è abilissimo nel tessere la sua esile trama assistito da una scrittura raffinata e matura, curatissima nella scelta lessicale, e da uno stile piano e semplice, capace di impennarsi in rapidi guizzi nei non rari momenti in cui il racconto in prima persona lascia spazio ai dialoghi o si dilata in pennellate di straordinaria efficacia descrittiva. Ne basti una, in tal senso, a esemplificarne assai bene il timbro: «Il profumo dei tigli durava poco. Il sole che piombava sui cortili, fin dal mattino, senza misericordia, riduceva ben presto i fiori al silenzio, accartocciati e secchi. Ma la loro missione i tigli l’avevano condotta a termine; ormai i seminaristi avevano avuto l’annuncio ufficiale che le vacanze bussavano alla porta e che gli esami sarebbero presto passati, a Dio piacendo, come “a farsi cavare un dente”, dicevano quelli che avevano già letto Manzoni […]» (pag. 73).

Marco Ostoni

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