Proseguendo nella manutenzione e aggiornamento di questo “magazzino” di parole disusate, fermiamoci un attimo a giocare. Con i tulin. Ma per non ripeterci, avendone già parlato nelle prime puntate, chiamiamoli con un nome diverso, altrettanto diffuso nella nostra terra: tegine. Se la parola tulin richiama il materiale di cui sono fatti i ‘tappi a corona’ (di tolla, ossia di ‘latta’), tegina richiama la forma dell’oggetto: quella di una piccola tegia (it. teglia). Punti di vista diversi, come fra romani (che la chiamano lattina) e trentini (i quali preferiscono padeleta, piccola padella), cosa che non impedisce però a ragazzi di ogni regione d’Italia di giocare insieme senza litigare.Il gioco più diffuso con le tegine-tulin era quello della “pista”, disegnata col gesso sui marciapiedi o sull’asfalto della strada, o tracciata con un bastoncino sulla terra battuta. Spingendo i “corridori” (spesso raffigurati in un dischetto ritagliato e incollato all’interno del tulin) a colpi di dita (gugade), ci si sfidava in interminabili Giri d’Italia, Tour de France e Gran Premi di Monza.Lungo gli stessi circuiti e con lo stesso “motore”, ma rotolando su piste scavate nella sabbia, correvano invece le burele (it. biglie). Anche di queste abbiamo parlato in passato e non ci ripetiamo, se non per aggiungere - su suggerimento di Marco D., amico d’infanzia e compagno di giochi d’antan - una tipologia che ha preceduto quelle “de stüch” e “de veder” che abbiamo sperimentato “in diretta”: le sase. Fatte, come dice il nome, di sasso (o di marmo, le più pregiate), si riconoscevano da quelle di terracotta, ci raccontavano i nostri vecchi, battendole sugli incisivi (le palete): dalla durezza e dalle vibrazioni gli “esperti” in calzoni corti ne deducevano la natura.A biglie abbiamo giocato noi negli anni ’50, i nostri genitori e i nostri nonni decenni prima, ma già secoli addietro i nostri conterranei si divertivano con le burele. Lo attesta un documento che ci segnala, nel latino del tempo, un “ludus ad borellas” diffuso a Lodi nel 1200. Gli increduli che sbotteranno in un “ma va a giügà a burele” (modo nostrano, gentile e “giocoso” per mandare ’a quel paese’), pensando che a pochi decenni dalla fondazione della nostra città - in pieno boom edilizio - i nostri antenati non avessero tempo per giocare, sono invitati a consultare il “Glossario latino-emiliano” di Pietro Sella, ed. CdV, 1937.Un ultimo cenno per gli amanti dell’etimologia. La parola burela nasce da una antichissima voce settentrionale, bora (o boro), ‘ceppo rotondo’, che ha lasciato molti discendenti nelle nostre parlate. Tra questi, il verbo burlà (giù), ‘cadere rotolando’, burlon (ruzzolone), burlot (borlotto, fagiolo tondeggiante). E, nel senso di ‘pallina’, la “burela de l’öv” (il tuorlo), la “burela del genög” (la rotula), fino al burin (capezzolo). Termini di casa nostra che però troviamo pressoché invariati da Torino a Trieste, con sconfinamenti al sud, in Emilia, e al nord, nella Svizzera ticino-grigionese.
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