Sono così numerosi i detti popolari “fuori corso”, che possiamo soffermarci sull’argomento per un’altra puntata. Ripartendo da candele e lümin, dove la cera sostituiva l’energia elettrica per l’illuminazione, arriviamo ad un altro oggetto dimenticato: il lume ad olio (o a petrolio). «A san Martin pipa e tulin» ci ricorda uno degli oltre 700 proverbi elencati nel già menzionato volume del Caretta. A significare che all’approssimarsi della cattiva stagione (San Martino si festeggia l’11 di novembre), riducendosi di molto il lavoro della campagna, ci si ritira in casa a fumare la pipa al chiarore della lucerna; il tulin (da tola, ‘latta’) era il recipiente che conteneva l’olio della lucerna.Ancora il tulin è protagonista di un altro proverbio: «L’è tame la ca del Bigin, un dì manca la tola e l’alter el stupin». Questo richiamo alla lucerna per la quale mancano una volta l’olio e l’altra lo stoppino (altro oggetto «fuori corso»), riflette una situazione in cui non si riesce a far quadrare i conti: o manca una cosa o ne manca un’altra, insomma c’è sempre qualcosa che non vaArrivata l’elettricità - e il gas - in tutte le case, oltre all’illuminazione abbiamo anche il riscaldamento molto più comodo ed efficiente. E scompare lo scaldaletto, che il 19 marzo, festa di san Giuseppe e antivigilia di primavera, veniva messo da parte per l’inverno successivo, seguendo la massima: «A san Giüsep se guarna el scaldalet». A gennaio invece faceva veramente freddo, tanto che : «In genar tüti i santi i gh’an el so tabar», proverbio che ci ricorda il tabarro, ampio e pesante mantello da uomo oggi in disuso. Insieme al tabar è scomparso anche il gaban, altro pesante indumento maschile usato già nel Medioevo per difendersi dalla pioggia e dal freddo. Il gaban dei nostri nonni era un abito da lavoro usato in campagna, come suggerisce il detto “L’acqua del vilan la bagna el gaban”, ossia (attingiamo ancora alla inesauribile fonte del Caretta) la pioggia è provvidenziale per il lavoro del contadino.Tempi beati in cui le stagioni non si scambiavano i ruoli, e nel mese di maggio nessuno usciva infagottato come si è costretti a fare in questa pazza primavera 2013.Il Lodigiano, un tempo zona di eccellenza per la produzione di latte e latticini, non poteva non produrre anche proverbi “a tema”. Come “L’om tegnis el tra via no gnanca el menis”: l’uomo avaro non sprecherebbe nemmeno lo scarto della produzione del formaggio. Il menis era infatti il residuo più denso del latticello che rimane sul fondo dopo la cagliata. Perduta l’eccellenza casearia, si perde anche il menis, e sparisce dalla circolazione il detto che lo richiama. Quali altre particolarità, oggi scomparse, presentava la vita di campagna che meritassero la menzione in un proverbio? Tante, ma lo spazio a disposizione ci costringe a sceglierne una: la sculmagna (o scumagna, o anche scurmagna). “Nei paesi de campagna pochi i gh’an un num, tüti una sculmagna”: il nomignolo era diffusissimo - questo il significato del detto - e spesso più conosciuto del nome registrato all’anagrafe. A questa strana parola, diffusa con poche varianti in tutto il Settentrione, abbiamo già dedicato una delle prime puntata di questa rubrica e non ci ritorneremo sopra. Diremo soltanto che in realtà l’uso del soprannome non è scomparso, anzi è tornato di moda grazie ad internet. Non si chiama più sculmagna; non fa più necessariamente riferimento a caratteristiche personali (come era per Tegnàdega ‘spilorcio’, Tencin ‘sporco’, El rus ‘dai capelli rossi’, Paciarisot ecc.); non è più assegnato democraticamente da amici (e nemici), ma ognuno se lo sceglie da sé. È il nickname, un nome spesso creato ad arte per non svelare la propria identità, il biglietto da visita con il quale ci si presenta nei social network.
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