24 ottobre 1917 - L’eredità drammatica della rotta di Caporetto

Il commento L’epilogo del primo conflitto mondiale arride agli italiani. E sarà proprio il fascismo, pochi anni dopo, ad ammantare di strumentale stoicità la lotta per la patria

Alle 2 del mattino del 24 ottobre 1917 inizia la 12esima battaglia dell’Isonzo, quella che passerà alla storia come la rotta di Caporetto. Reparti austriaci e tedeschi lanciano l’attacco contro le linee di difesa della seconda armata italiana, attestata sulla linea del fronte tra Tolmino e Caporetto, le attuali Tolmin e Kobarid, in terra slovena. Per l’esercito italiano è la più grande disfatta della Prima Guerra Mondiale. Quella che fino ad allora era stata una tremenda guerra di posizione, nella quale la conquista di poche centinaia di metri di territorio nemico era considerata una vittoria, vede cambiare improvvisamente paradigma, perché gli austroungarici sfondano le linee italiane e penetrano per circa centocinquanta chilometri fino al Piave, come la lama arroventata di un coltello nel burro.

Nelle prime ore del 24 ottobre 1917 gli austriaci sfondano le linee nemiche grazie al fondamentale apporto dei tedeschi che, dopo mesi di tentennamenti si convincono ad aiutare militarmente Vienna su un fronte che, dalla Germania, consideravano secondario

La rotta di Caporetto, con i suoi trecentomila prigionieri e i trecentocinquantamila sbandati, è uno choc per l’Italia e per il suo esercito che fino ad allora stava primeggiando in un’estenuante guerra di trincea sugli austroungarici, che erano peggio armati, meno motivati, male alimentati, insomma, erano la pallida ombra di un grande impero e la fotografia di uno stato plurinazionale in disfacimento.

Nelle prime ore del 24 ottobre 1917 gli austriaci sfondano le linee nemiche grazie al fondamentale apporto dei tedeschi che, dopo mesi di tentennamenti si convincono ad aiutare militarmente Vienna su un fronte che, dalla Germania, consideravano secondario. E così uomini e cannoni vengono spostati in poche settimane dagli altri fronti aperti alle montagne italiane, superando mille ostacoli e generando anche qualche bizzarro incidente di percorso, come le armi tedesche che, destinate all’Italia, arrivano in Romania, colpa delle ferrovie austriache, decisamente meno efficienti di quelle teutoniche. Gli stessi comandanti tedeschi spingono affinché l’attacco a Caporetto avvenga ben prima del 24 ottobre, temendo il peggioramento delle condizioni metereologiche in montagna, ma devono arrendersi di fronte all’impreparazione logistica dell’alleato.

Gli austriaci, di per sé inferiori alla pur debole Italia dal punto di vista militare, riescono a infliggere una storica sconfitta al regno dei Savoia approfittando delle armi e delle munizioni tedesche e della maggior preparazione delle Sturmtruppen.

In Germania la rivoluzione industriale è già una realtà consolidata e le fabbriche delle grandi città forniscono loro malgrado all’esercito militari che sanno leggere e scrivere e sono culturalmente molto più preparati degli italiani, che al contrario vengono sbattuti in trincea strappandoli spesso dalle campagne più povere dello Stivale, dove si parla solo il dialetto e l’analfabetismo è la regola

C’è anche una ragione organizzativa, che affonda le radici nella preparazione culturale e sociale dei soldati. In Germania la rivoluzione industriale è già una realtà consolidata e le fabbriche delle grandi città forniscono loro malgrado all’esercito militari che sanno leggere e scrivere e sono culturalmente molto più preparati degli italiani, che al contrario vengono sbattuti in trincea strappandoli spesso dalle campagne più povere dello Stivale, dove si parla solo il dialetto e l’analfabetismo è la regola. E così i soldati tedeschi hanno maggior autonomia di pensiero e di azione, mentre gli italiani sono bloccati per ore in attesa di ordini superiori, sotto una pioggia di proiettili, vittime di una catena di comando assurda ed elefantiaca. Dietro le linee italiane si muore per le bombe tedesche e le malattie, ma si muore anche per l’immobilismo degli ufficiali, incapaci di prendere decisioni rapide e di trasmetterle ai sottoposti, che a loro volta, a differenza dei tedeschi, non hanno indipendenza nemmeno nelle scelte minime, che potrebbero però salvare delle vite.

Lo sfondamento delle linee italiane inizia alle 2 del mattino del 24 ottobre 1917 e in pochi giorni si materializza una catastrofe. Una disfatta totale della quale il capo di stato maggiore dell’esercito italiano, il generale Luigi Cadorna, non si assumerà alcuna responsabilità, arrivando a scrivere sul Bollettino di Guerra numero 887 del 28 ottobre 1917 che la sconfitta era da addebitarsi ai soldati “vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico”.

Le parole di Cadorna non devono stupire, perché da mesi negli alti comandi italiani si esprimeva preoccupazione e intolleranza per i messaggi pacifisti di cui era pervaso il Paese e che avevano fatto breccia anche tra i soldati al fronte, lontani da casa ormai da mesi e che non sopportavano più una guerra di trincea logorante e disumana

Le parole di Cadorna non devono stupire, perché da mesi negli alti comandi italiani si esprimeva preoccupazione e intolleranza per i messaggi pacifisti di cui era pervaso il Paese e che avevano fatto breccia anche tra i soldati al fronte, lontani da casa ormai da mesi e che non sopportavano più una guerra di trincea logorante e disumana. Tanto che si era arrivati al punto di disporre che i carabinieri sparassero a quanti tentavano la fuga. In realtà le diserzioni, per quanto presenti, risultarono in numero non sufficiente a giustificare lo sfaldamento delle linee difensive italiane a Caporetto; così come la reale lettura dei fatti di quei giorni ci consegna l’immagine di un esercito italiano che ha combattuto con eroismo ed è stato sopraffatto dal nemico, rafforzato in maniera decisiva dagli aiuti tedeschi.

Eppure l’evidente odio alle manifestazioni pacifiste e una concezione della società in guerra perenne, nella quale prevale l’uomo forte, eroico e tecnicamente meglio attrezzato e preparato, si annidano poco alla volta nella profondità della società italiana e dunque anche dell’esercito. E sono gli stessi concetti che verranno poi fatti propri dal fascismo, tra le cui fila si arruoleranno molti soldati tornati dalla guerra di trincea e rimasti senza una occupazione.

Dimenticato in breve tempo il Bollettino di Guerra nel quale Cardorna si autoassolve e sostituito il vertice del comando italiano, l’epilogo del primo conflitto mondiale arride agli italiani. E sarà proprio il fascismo, pochi anni dopo, ad ammantare di strumentale stoicità la lotta per la patria, esaltando lo sforzo bellico e disponendo la realizzazione dei monumenti ai caduti, che finiranno nella narrazione della nuova Italia di Benito Mussolini.

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