Editoriali / Lodi
Martedì 28 Maggio 2024
Cosa cambierà nel regime iraniano e nel mondo dopo la morte di Raisi
Ebrahim Raisi, presidente iraniano in carica dal 2021, è morto una settimana fa con altre sette persone in un incidente di volo. Il suo elicottero, con il quale stava tornando in patria dopo un incontro con i vicini dell’Azerbaijan, si è schiantato in una regione montuosa appena entro i confini iraniani. Nebbia e maltempo hanno complicato ricerca e soccorsi. Con lui, è morto anche il ministro degli esteri, Hossein Amirabdollahian.Le speculazioni sulle cause della morte di Raisi sono subito proliferate: la lista di coloro i quali avrebbero voluto morto il presidente ultraconservatore è lunga. CIA, Mossad, Sauditi, o i miliziani anti-regime dei Mojaheddin-e Khalq, gruppo iraniano di ispirazione marxista. È comprensibile indulgere in teorie del complotto. In mancanza di prove (non vi sono segni di esplosioni a bordo, o manomissioni), rimane il fatto che l’elicottero su cui viaggiava Raisi era di produzione americana. Date le sanzioni applicate da Washington dopo la rivoluzione islamica del 1979, l’accesso all’industria dell’aviazione americana è venuto meno. Inclusi pezzi di ricambio: l’Iran vanta infatti tristi primati di insicurezza aerea.
Più importante è invece riflettere sulle implicazioni della morte di Raisi. Per prima cosa, non è un evento capace di modificare la postura geopolitica del paese. Sebbene Raisi fosse considerato un falco, dalle spiccate propensioni anti-occidentali e anti-israeliane, era parte di un apparato molto più ampio. Apparato imperniato sul Consiglio di Sicurezza Nazionale presieduto da Ali Khamenei, l’ayatollah supremo e vera guida del paese, che indirizzano la politica estera di Teheran.
Raisi si trovava in Azerbaijan con Amirabdollahian per promuovere tale politica. Il paese caucasico ha infatti un rapporto complesso con l’Iran. Sciita ma turcofono, può vantare potenzialmente grande influenza verso il suo vicino in quanto vi sono più azeri che vivono in Iran che in Azerbaijan stesso. Dopo il ceppo persiano, gli azeri sono la seconda comunità etno-linguistica del paese. Lo stesso Khamenei vanta ascendenze azere, e molti membri degli alti apparati statali possono dire lo stesso. Tuttavia, non solo l’Azerbaijan è da sempre molto vicino alla Turchia, che lo ritiene parte dell’universo turco. Si è anche avvicinato molto all’occidente, in particolare ricevendo copiose forniture di armi da Israele nell’ambito del conflitto per il Nagorno-Karabach con l’Armenia. Raisi era in visita appunto per cercare di riavvicinare i due paesi e allontanare quindi Baku da Tel Aviv.
Ancor più rilevante può essere la lettura, in controluce, della morte di Raisi nel contesto interno iraniano. In primo luogo, il regime si è affrettato a presentare Raisi come “shahid”, ovvero martire della resistenza contro le forze che vogliono soggiogare il paese (America e Israele in primis). Grandi murales sono apparsi a Teheran dove lo si vede abbracciare Qassem Suleimani, il generale delle Guardie Rivoluzionarie ucciso nel gennaio 2020 in Iraq da un attacco ordinato dall’allora presidente USA Donald Trump. Suleimani era la mente dietro la strategia di espansione iraniana nella regione dell’Iran. Una strategia basata sull’affiliazione di vari gruppi militanti ai desiderata di Teheran: Hamas in Palestina, Hezbollah in Libano, Houtis in Yemen, Hashd in Iraq. Raisi non poteva vantare niente di tutto ciò: era conosciuto soprattutto per essere stato “il giudice-boia” durante una serie di processi contro oppositori politici a fine anni ’80, quando ne mandò migliaia al patibolo. Uomo di regime, andò nel corso del tempo ad inserirsi nelle gerarchie ecclesiastiche sciite fino ad indossare il turbante nero, segno di discendenza diretta dal profeta Maometto.
Le elezioni vinte nel 2021 erano dunque il risultato di una sua imposizione da parte del regime stesso, non certo di genuina popolarità nel paese. Non basta: la stessa brutale fermezza dimostrata quando era procuratore generale di Teheran si è manifestata pure nella violenta repressione delle proteste seguite all’uccisione di Mahsa Amini nel settembre 2022.
Raisi era infine considerato uno dei possibili successori ad Ali Khamenei, ormai molto anziano. Un tentativo, si è detto, di preservare il potere del clero sciita all’interno del complesso sistema politico-istituzionale del paese, unica teocrazia islamica al mondo. Un potere che non è minacciato solo da nemici esterni o dal malcontento interno: ma anche dal potere continuamente in crescita proprio delle Guardie Rivoluzionarie. Emersi come milizia a difesa del regime teocratico, si sono poi sviluppati nel corso degli anni nell’istituzione più potente del paese. Oltre 150.000 miliziani, in controllo di grandi risorse finanziarie, industriali, logistiche e, ovviamente, di armi. Il clero sciita non ha saputo mantenere in reale posizione subordinata le Guardie. Raisi, con tutta probabilità, non avrebbe cambiato la situazione. Rimane ancora la possibilità più concreta per il futuro prossimo della Repubblica Islamica: la relegazione del clero in posizione subalterna, e l’avvento di un sistema pretoriano. Il murales raffigurante l’abbraccio tra Suleimani e Raisi potrebbe quindi rappresentare un incruento, ma quanto mai effettivo, mutamento dei rapporti di forza interni al regime.
*di Sant’Angelo Lodigiano, professore universitario all’estero
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