Un quadro ben più grave di quello evidenziato attraverso la narrazione giornalistica fino ad oggi.
È quello che emerge dalle carte dell’inchiesta sul Covid della procura di Bergamo: un fascicolo di circa 3mila pagine che ricostruisce la storia di una epidemia che ha sconvolto il mondo, proprio a partire dal Lodigiano. Che fossimo impreparati a fronteggiare la malattia era già chiaro, dalle pubblicazioni precedenti, ma ora lo è ancora di più, fatti e dati alla mano.
Era stato già evidenziato che la data del 20 febbraio era solo quella della prima diagnosi. Il virus girava, senza un nome, in Italia, nel Lodigiano e nel Bergamasco, almeno fin da gennaio. Purtroppo, però, l’allerta era bassa.
All’inizio di gennaio 2020, infatti, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie stimava «che il rischio di introduzione dell’infezione in Europa, attraverso casi importati», fosse «moderato».
Dalle indagini compiute successivamente si è visto che il virus aveva già iniziato a circolare nell’autunno 2019 ed era arrivato in Italia a gennaio. La procura menziona, nella ricostruzione dei fatti, lo studio pubblicato su «Pnas» da ricercatori dell’università di Cambridge nel Regno Unito e della Germania, che in base ai genomi virali sequenziati, delle 3 varianti genetiche del virus identificate, la C fosse quella diffusa in Europa, Italia compresa: il primo ingresso in Italia, infatti, sarebbe stato il 27 gennaio, dalla Germania o da Singapore.
La procura ricorda di quando il paziente 1, Mattia Maestri, arrivò una prima volta in pronto soccorso, a Codogno, il 18 febbraio e una seconda il 19, giorno in cui venne ricoverato. Quello che accadde dopo è noto: l’anamnesi fatta dalle dottoresse dell’ospedale di Codogno Laura Ricevuti e Annalisa Malara, parlando con la moglie di Maestri e la loro insistenza nell’effettuare il tampone il 20 febbraio, che risultando positivo costituì di fatto il primo caso di Coronavirus del mondo occidentale.
Come riportato nei giorni precedenti il 20 dal «Cittadino» e come riferito anche dalla stessa Procura, casi di polmoniti anomale, in quei giorni erano stati numerosi. Infatti, nel Basso Lodigiano, tra giovedì 20 e lunedì 24 febbraio si era improvvisamente passati da zero a oltre 200 casi di Coronavirus. La situazione era già sfuggita di mano. A colpire in modo particolare, è la narrazione dell’Ats di Bergamo rispetto a una segnalazione arrivata nei loro uffici, il 17 febbraio, per un “sospetto” caso di Coronavirus, anche se la parola sospetto non compare, rispetto all’insorgenza di un focolaio nel ristorante Da Cecca di Zogno, in provincia di Bergamo, dove il 14 febbraio aveva pranzato anche un anziano di Codogno. Il cugino bergamasco del titolare era risultato positivo, il 21 febbraio il locale era stato chiuso e tutte le 44 persone messe in quarantena, ma nessuna di loro non avendo sviluppato sintomi, secondo i protocolli del momento, era stata considerata positiva.
Non eravamo preparati, dice la procura: «Non risulta - raccontano gli atti - che il ministero abbia adottato misure incisive nel caso in cui il virus fosse arrivato in Italia. Non ha provveduto all’acquisto di attrezzature, dispositivi di protezione individuale, tamponi o reagenti o che abbia impartito disposizioni per l’implementazione di quanto necessario agli ospedali, comprese le terapie intensive, respiratori, caschi, cpap, formazione del personale, distinzione degli ospedali da Covid a Covid free, aumento dei laboratori autorizzati ad analizzare i tamponi, previsione di disporre la quarantena obbligatoria a chiunque provenisse dalla Cina fin da gennaio. L’istituto superiore di sanità non aveva previsto nemmeno i file per consentire alle Regioni di inviare i dati dei positivi. Il nostro paese - conclude la procura - non era pronto ad affrontare l’epidemia, semplicemente perché nulla era stato programmato». Il Lodigiano ne esce “bene”, per quanto riguarda la gestione: ha saputo, grazie alle sue dottoresse, come ricorda anche il giornalista Fabrizio Gatti nel suo volume “L’infinito errore” isolare il virus e ha adottato da subito un modello, copiato poi in tutto il mondo. per il contenimento del Coronavirus, dentro l’ospedale e fuori, con la costituzione della zona rossa, nella Bassa, che se fosse stata adottata anche nel Bergamasco, 4mila persone non sarebbero morte. Dalle carte emerge anche il ruolo dei nostri politici che sollecitavano le autorità regionali a fornire mascherine e tamponi perché la situazione era grave. Il Lodigiano ha pagato come gli altri la scarsità di questi e altri materiali, delle forniture di ossigeno, dei caschi cpap e dei posti in terapia intensiva.
I pazienti, nella prima fase, arrivavano a ondate di 100 alla volta, in pronto soccorso e si aggravavano fino al decesso, da un momento con l’altro. Il centralino del 112 era costantemente intasato. Si moriva per il Covid e anche per le conseguenze del Covid. Ora la sfida è alta: con il ricordo dei nostri morti nel cuore, fare in modo, per quanto possibile, che una sciagura così non si ripeta mai più.
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