
Editoriali / Lodi
Lunedì 05 Maggio 2025
Khmer, strage dimenticata nel segno del marxismo
Tre milioni di morti in pochi anni per un regime nato con l’acclamazione del popolo
Il 17 aprile 1975 i Khmer rossi, guidati dal loro leader Pol Pot, presero il controllo della capitale cambogiana Phnom Penh e misero così fine al regime del generale Lon Nol, fedele alleato degli Stati Uniti. I vertici dei Khmer rossi – tra cui lo stesso Pol Pot – avevano tutti studiato in Francia negli anni Cinquanta, sviluppando così un’ideologia saldamente marxista, una «via cambogiana al socialismo», come ha detto lo storico Fabio Giovannini, che considerasse le specifiche condizioni sociopolitiche della Cambogia. Più tardi, nel 1970, il sovrano cambogiano, re Sihanouk, era stato sfiduciato dal parlamento e costretto all’esilio, dopo che l’amministrazione Nixon aveva deciso di allargare i bombardamenti, già in corso in Vietnam, anche in Cambogia. La CIA aveva infatti scoperto che Sihanouk si era accordato segretamente con il Vietnam del Nord, nemico degli Stati Uniti nell’ambito della guerra in Vietnam.
Dopo l’allontanamento del re, i Khmer rossi erano riusciti a cavalcare il malcontento della popolazione contro l’iniziativa americana, scaricandone l’intera responsabilità ai partiti più a destra del parlamento cambogiano. E, contro ogni pronostico, perfino il re, esule a Pechino, cominciò a sostenere l’opposizione dei Khmer rossi al generale Lon Nol. Sfruttando l’endorsement del re, ancora assai popolare in patria, la crescente insofferenza nei confronti dell’ingerenza statunitense e il prezioso aiuto dei Viet Cong, i Khmer rossi riuscirono a imporsi militarmente già a partire dal 1973. Gli Stati Uniti per ostacolarli intensificarono i bombardamenti. Ciononostante nulla cambiò e infine il 17 aprile la capitale cadde nelle mani dei rivoluzionari.
La popolazione salutò inizialmente con grande entusiasmo l’arrivo dei Khmer rossi. Dopo un’ora dal loro ingresso in città, però, il traffico di Phnom Penh fu bloccato e vennero requisiti tutti i mezzi di circolazione. Mezz’ora dopo, intorno alle nove del mattino, scattarono i primi ordini di evacuazione: gran parte della popolazione fu dislocata nelle campagne con il pretesto di creare così le condizioni migliori per fronteggiare gli imminenti bombardamenti americani. La paura della reazione statunitense, diffusa ad arte dai rivoluzionari, rese l’esodo molto più rapido ed efficiente: scuole, ospedali, attività commerciali furono chiuse in poche ore. Il denaro lasciò posto al baratto; i mezzi d’informazione vennero posti sotto controllo; l’interscambio postale fu interrotto.
Questo fu l’atto iniziale del regime che ordinò l’eliminazione - si stima - di quasi tre milioni di oppositori tra il 1975 e il 1979. Un autentico genocidio che falcidiò la popolazione cambogiana; ancora oggi una ferita aperta.
La fine dei Khmer rossi, che coincise con la morte di Pol Pot nel 1998, obbligò la comunità internazionale a chiedere un processo che riconoscesse le responsabilità degli attori del genocidio.
Ma non fu un processo equo. Un processo davvero giusto, infatti, avrebbe dovuto far luce anche sul ruolo avuto dalle Nazioni Unite, che autorizzarono aiuti diplomatici, finanziari e militari ai Khmer rossi dopo il 1979. Altrimenti, in che modo Pol Pot avrebbe potuto mantenere il potere sino alla sua morte? Il processo, che si aprì ufficialmente nel 2001, fu seguito con eloquente disinteresse dalla popolazione locale. Oggi la Cambogia fatica a lasciarsi questa drammatica storia alle spalle. Nel paese rievocare questa dolorosa vicenda costituisce ancora un tabù: l’epoca dei Khmer rossi non si studia a scuola e la gente ne parla malvolentieri.
Una pericolosa damnatio memoriae che, seppur sospinta dall’umana esigenza di lenire il dolore, finisce per obliare la verità storica, consentendo così ai responsabili di questa strage di continuare a godere, impuniti, della loro immeritata libertà. La dimenticanza è il terreno delle ingiustizie, né mai può essere catartica, giacché, come asseriva Milan Kundera, «la lotta dell’uomo contro il potere è la lotta della memoria contro l’oblio».
© RIPRODUZIONE RISERVATA