La longa manus iraniana è il vero incubo di Tel Aviv

Il commento di Massimo Ramaioli

Dopo anni di minacce reciproche, per la prima volta nella storia Israele e Iran hanno attaccato i rispettivi territori nazionali. Il 3 aprile Israele ha bombardato - stavolta sì chirurgicamente - il consolato iraniano a Damasco. Ha ucciso nell’operazione 17 cittadini iraniani, compreso un generale delle Guardie Rivoluzionarie, obiettivo primario dell’attacco. La risposta di Teheran è arrivata due settimane dopo: uno sciame di missili e droni che ha sorvolato Iraq, Siria e Giordania per arrivare su Israele.

La quasi totalità è stata intercettata dalla copertura antiaerea dell’“Iron Dome” e dall’aviazione israeliana, coadiuvata anche da quelle americane e britanniche nella zona.

Non ci sono stati danni sensibili a persone o cose. Teheran ha dichiarato subito come chiusa la questione. La successiva reazione di Israele, dopo giorni di pressione diplomatica statunitense per limitare tale risposta e non scatenare una ulteriore intensificazione del conflitto, è stata blanda. La contraerea iraniana ha abbattuto alcuni droni sopra Isfahan (senza che peraltro Israele ne abbia rivendicato il lancio), grande città nel centro del paese e sede di importanti installazioni militari.

Tanto rumore per nulla? Forse sì. Ma val la pena chiedersi il perché di questo risultato in momento di tale volatilità politica e militare nella regione e non solo.

Innanzitutto, Israele ha colpito le Guardie Rivoluzionarie a Damasco in quanto manifestazione concreta di quella longa manus iraniana che è il vero incubo di Tel Aviv. Sebbene non vi siano elementi per credere che Teheran abbia assistito e pianificato direttamente l’attacco del 7 Ottobre, rimane chiaro come non solo Hamas, ma anche e soprattutto gli Hezbollah libanesi, gli Houthi in Yemen e varie formazioni paramilitari in Iraq e Siria siano legate a doppio filo all’Iran, come pure i regimi di questi due paesi. Non parliamo di meri fantocci: ma rimangono comunque satelliti e agenti della potenza persiana in Medioriente. Potenza che si dispiega appunto con la presenza, sul campo, di servizi di sicurezza, agenzie di spionaggio e intelligence, istruttori militari e a volte addirittura soldati regolari. L’eliminazione di tale personale rimane per Israele obiettivo chiave per contenere l’Iran.

Mai, tuttavia, si era spinto a colpire una sede diplomatica, per il diritto internazionale parte integrante del territorio nazionale. Israele voleva mandare un messaggio a Teheran: le operazioni condotte indirettamente tramite i suoi alleati nella regione non lo mettono al riparo da rappresaglie dirette. In secondo luogo, intendeva distrarre l’opinione pubblica dal massacro di Gaza, dove ormai gli sfollati sono quasi due milioni e le vittime oltre 35.000, per lo più civili di cui un terzo bambini. Un confronto aperto con l’Iran poteva riproporlo come spauracchio in qualche modo capace di giustificare le azioni di Tsahal a Gaza e allo stesso tempo metterle in secondo piano.

Da parte sua l’Iran non poteva non reagire all’attacco a una sua ambasciata: specie se da parte israeliana. Il regime, dispotico e brutale quanto si vuole, deve comunque rendere conto ad una popolazione orgogliosa e avversa da decenni a Israele, percepito come entità coloniale e imperialista. Sondaggi, difficilmente affidabili in quanto condotti in un ambiente dove non vi è vera libertà di espressione, concordavano però nel descrivere la soddisfazione popolare per gli attacchi missilistici.

Ma che attacco è stato? Descritti spesso in modo molto inappropriato come fanatici irrazionali, i decisori di Teheran sono invece politici abili - immorali e spregevoli che siano. Hanno con tutta probabilità calcolato quanti più missili e droni lanciare per non “saturare” le difese antiaeree israeliane e causare danni veri. Avendo a disposizioni migliaia di tali strumenti, era nelle loro capacità. Ma ciò avrebbe comportato una risposta israeliana altrettanto forte: in un confronto militare aperto, gli Iraniani sanno di avere la peggio. E avrebbero fatto il gioco israeliano: aprire un fronte distraendo così da Gaza. Cosa che a Teheran, ovviamente, non vogliono. Mai fermare un nemico che sbaglia: lasciare Israele in un sanguinoso pantano irrisolvibile, mentre la sua reputazione si ingrigisce pure presso le cancellerie occidentali, torna solo a favore degli ayatollah.

I quali, per di più, possono ora reclamare un primato nelle piazze del mondo islamico: di avere, alla fine, attaccato Israele. Moneta sonante per il soft power iraniano: necessario pure sul fronte interno dove le proteste, dalla morte di Mahsa Amini, hanno mostrato come la quiescenza possa essere sì imposta con la violenza; ma che il consenso si costruisca anche proiettando un’immagine forte e assertiva nel mondo.

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