La scuola come privilegio: pochi passi avanti tra i poveri nel mondo

E anche in Italia risultano oltre 300mila lavoratori sotto i 15 anni

In questi giorni, sui social, è un tripudio di immagini di bambini festanti che iniziano il nuovo anno scolastico: piccoli e meno piccoli che riprendono il percorso di studi, accompagnati da genitori tra il commosso e il preoccupato per il nuovo inizio. Le prime settimane di settembre sono caratterizzate da questi riti d’inizio: la scuola, le attività sportive, gli hobby, le attività parrocchiali e di volontariato. Dopo la lunga pausa estiva, riprende il solito tran tran, e la quotidianità scandisce il tempo con un movimento talvolta un po’ ripetitivo e meccanico. Forse ci è difficile riconoscere e apprezzare la fortuna insita in tutto questo: a volte ci sentiamo come criceti che corrono dentro la ruota, incapaci di alzare lo sguardo e apprezzare il privilegio che la vita ci ha concesso nel nascere in un Paese come il nostro. Le cose assumono tutt’altra prospettiva se consideriamo che, nel mondo, circa 160 milioni di minori tra i 5 e i 17 anni lavorano, pur non avendo l’età minima legale per farlo. Di questi, 79 milioni svolgono lavori pericolosi per la loro salute e crescita. Tra loro, 97 milioni sono bambini e 63 milioni sono bambine. Ci sono zone del pianeta in cui la scuola è un privilegio riservato a pochi, e l’istruzione diffusa resta un miraggio per molte generazioni. Nell’ambito dell’Agenda 2030, la comunità internazionale aveva fissato l’obiettivo n. 8.7, che mirava a porre fine al lavoro minorile in ogni sua forma entro il 2025. Nonostante i progressi degli ultimi due decenni, i dati più recenti indicano che i miglioramenti sono stagnanti dal 2016. Conflitti, crisi e la pandemia di coronavirus hanno gettato molte famiglie nella povertà, aumentando il rischio di povertà minorile. L’area più colpita da questa piaga è l’Africa subsahariana, dove ci sono 125,6 milioni di bambini lavoratori, 38,6 milioni dei quali impegnati in lavori pericolosi. Segue la regione Asia-Pacifico, con 70,9 milioni di minori lavoratori, di cui 22,2 milioni in condizioni rischiose.

Anche l’Italia non è immune da questo fenomeno: secondo un’indagine condotta nel 2023 da Save the Children, 336 mila minorenni tra i 7 e i 15 anni hanno avuto esperienze di lavoro, ovvero il 6,8% della popolazione in quella fascia d’età. Tra i 14-15enni, il 20% ha lavorato prima dell’età legale: 1 minore su 5. Quasi la metà dei minori intervistati ha dichiarato di aver trovato lavoro tramite i propri genitori, evidenziando come una parte del lavoro minorile sia legata all’ambito familiare. I settori principali di impiego sono la ristorazione (25,9%), la vendita al dettaglio e le attività commerciali (16,2%) e il lavoro online, come pubblicità, video, contenuti sui social a pagamento e compravendita online (5,7%).

Le conseguenze di questo fenomeno sono evidenti: il lavoro minorile favorisce l’abbandono scolastico, che rappresenta ancora un problema acuto in Italia. Secondo l’ISTAT, nel 2021, il 12,7% dei giovani tra i 18 e i 24 anni ha lasciato il sistema di istruzione e formazione senza aver conseguito un diploma o una qualifica, rispetto a una media europea del 9,7%.

I minori che lavorano faticano a conciliare il tempo dedicato al lavoro con quello dello studio, con conseguenti assenze e difficoltà nello studio stesso. Le ricerche mostrano che il lavoro minorile spesso porta alla condizione di “NEET” (Not in Education, Employment, or Training), ragazzi che non studiano, non lavorano e non seguono percorsi formativi. In Italia, nel 2022, i NEET tra i 15 e i 29 anni erano oltre 1 milione e 500mila, pari al 19% della popolazione di riferimento, un dato secondo solo a quello della Romania in Europa.

L’istruzione pubblica e universale rappresenta un pilastro fondamentale per la crescita della persona e dell’intera comunità nazionale. Garantire a tutti l’accesso all’educazione significa non solo offrire ai singoli la possibilità di sviluppare appieno il proprio potenziale, ma anche costruire una società più equa e coesa, in cui ciascuno possa contribuire al bene comune. L’istruzione non è solo un diritto, ma uno strumento di emancipazione sociale, economica e culturale, che riduce le disuguaglianze e apre le porte a nuove opportunità.

In un mondo sempre più complesso e interconnesso, investire in un sistema educativo inclusivo e di qualità è una delle risposte più efficaci per contrastare la povertà, favorire l’innovazione e creare cittadini consapevoli, capaci di affrontare le sfide del futuro. Una nazione che pone l’istruzione al centro delle sue politiche è una nazione che guarda al progresso, alla giustizia sociale e allo sviluppo sostenibile, permettendo a ogni individuo di contribuire attivamente alla crescita collettiva e al rafforzamento della democrazia.

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